Ordini Cavallereschi Crucesignati

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mercoledì 28 novembre 2018

DUE BELLISSIMI ARTICOLI DELLA NEW ENTRY, DOTTORESSA ELISABETTA MARIA SALVATI


“Il Padre” … sublime, toccante, liberatorio…

                                                             di Elisabetta SALVATI

FatihAkin, turco di seconda generazione, nato ad Amburgo, è il regista ispirato de “Il Padre”, un’opera sublime, autentica, in una parola: bella!
Laddove l’etica sposa l’estetica, il miracolo si compie. Il glamour di Zeffirelli, la poesia di Visconti, l’autenticità di Pasolini, si fondono insieme con un tocco di spleen mediorientale, e una vicenda tragica e sorprendentemente attuale diventa arte pura, puro godimento per lo spettatore.
TaharRahim, giovane attore di origine algerina, dona spessore e tenerezza al suo personaggio con la sola magia dello sguardo. Reso muto da una ferita mortale, dalla quale viene salvato proprio dal suo carnefice, il protagonista vuole ritrovare a tutti i costi le figlie amate, disperse dalla guerra turca contro gli Armeni cristiani alle soglie della prima guerra mondiale.
E cosi percorre migliaia di chilometri a piedi e attraversa oceani e continenti. Senza mai perdere la dignità, la fede, la speranza.

Nazaret, il destino in un nome. Il “Padre” è un artigiano, sposato ad una donna gentile e garbata che canta la sera, prima di addormentarsi, come una preghiera di ringraziamento. Due figlie amatissime, molto legate ai genitori come nelle famiglie di una volta. Una fede cristiana semplice ma tenace, come quella dei bambini quando si confessano. Una vita ricca di amore per l’esistenza stessa, con la gioia nel cuore di chi non ha niente ma ha trovato tutto. Poi la guerra, la crudeltà, il martirio. E l’incontro con un “buon ladrone” che gli salva la vita dicendogli “perdonami”. E la speranza ritorna.
Le immagini scorrono chiare, con il ritmo dei pensieri e degli umori di chi attraversa il deserto con poca acqua e tanto ardore ad ogni passo. Pochi gesti, semplici ma intensi toccano il cuore e la mente dello spettatore che vive come un thriller dell’anima questa caccia al tesoro dei sentimenti e dei ricordi.
E Nazaret ci insegna ad aspettare, sperare, amare. Anche quando tutto sembra perduto, lui non si arrende. Perché la fiamma che lo abita è sempre viva, accesa, audace. I grandi silenzi, il vento del deserto, le dune capricciose, i sentieri perduti conducono là dove una umanità intera si incontra e si scontra, in fondo al cuore, come in un grande gioco che sempre si rinnova.
Ma il lume dell’amore non vacilla. Trasforma l’intensità dello sguardo, il calore degli abbracci, la piega di una guancia che dice addio al fratello amato e riprende il cammino. Fino alla fine.
Fino davanti alla tomba di una figlia perduta ma mai dimenticata. Fino al sorriso della sorella gemella che finalmente stretta al Padre lo accompagna verso la sua nuova vita.
La bellezza non ha confini. Oltre gli uomini, i sogni, la storia, le epoche, le filosofie, gli stili e i modus vivendi; oltre l’immaginazione, perfino oltre l’inimmaginabile, vi sarà sempre un occhio benevolo, una luce sapiente, un battito di ciglio per segnare l’inizio di un nuovo giorno, sotto l’egida della meraviglia.
Perché bellezza è meravigliarsi. Del Creato, di sé stessi, dell’alto e del basso, del micro e del macro, del nulla e del tutto. Come una preghiera che scorre nelle vene, bellezza è tutto quanto ci aspetta e tutto quanto speriamo, quando non cessiamo di guardare il mondo con occhi innocenti, cuore docile, mente leggera, e passo svelto.
“Il Padre” è un film bello perché vero oltre che reale, e narra dell’eterno dell’uomo, la cerca di sé, del proprio nucleo, di una comunione da ripristinare per ritrovare quella purezza d’animo che sola rende agile il vivere. Ed è attuale, vicino a tutti noi anche se narra di terre sconfinate nello spazio e nella memoria.
“Il Padre” ci accompagna, sui passi di ogni giorno, nella nostra lotta quotidiana per sbarcare il lunario e soprattutto per non perdere il senno. E il senso. Della bontà come della cattiveria. E indica la Via. Attraverso la fedeltà a sé stessi, a tutto quanto ci è più caro al mondo, fino a guardare negli occhi quel “padre Altro” che ci attende fin dagli inizi del mondo.

 Sono stata folgorata dai campi…
Non ne volevo scrivere. Ma la voce dentro urla e la devo ascoltare. Gridare al mondo che anche io ho visto. L’orrore dei campi di sterminio.
Nel mio viaggio a Cracovia, una sosta ad Auschwitz e Birkenau era di rigore. La temevo. Avrei voluto fuggire, far finta di essere una turista un po’ annoiata, un po’ blasée, interessata solo alla bellezza.
E la bellezza l’ho scorta anche qui. Terribile, atroce.  La bellezza della vita che non vuole morire. Nello sguardo sgomento di un bambino, nell’abbraccio di una mamma al suo piccolo neonato che non vuole abbandonare e che seguirà imperterrita nelle camere a gas, nella sfilza di indumenti e oggetti d’uso quotidiano innalzati a muro di sdegno e di silenzio orrifico.
Un popolo che viaggia, un popolo che narra di una perdita di senso, di identità umana, di dignità personale. Un buio cosi impellente da costringere tutti noi ad accendere una luce nella nostra coscienza e urlare al cielo “perdono”. Perdonaci Signore perché anche noi siamo coinvolti.
Con i giudizi, le assenze, le colpe attribuite sempre a qualcun altro.

Come è stato possibile che una società nazionale, la Germania, ed un pubblico europeo e mondiale abbiano assistito all’ascesa del delirio? Se penso che ancora oggi esistono negazionisti mi sale come una sorta di disgusto su dallo stomaco fin nella gola. Per l’idiozia umana.
Il mostro, prima di essere cattivo, è semplicemente stupido, ignorante, assente, indifferente. Ogni volta che siamo indifferenti al vicino di casa, al collega malevolo, ad  un amore un po’ spento, ad un sogno infranto, ogni volta che abdichiamo non alla ragione ma alla passione per la vita intesa come sapore, gusto, scienza e sapienza, arte e  creatività, ci rinchiudiamo in uno sgabuzzino oscuro dal quale escono solo incubi.
La memoria non aiuta a ricordare, ma a vivere. Rivivere momenti di luce, di gioia, che possono illuminare le nostre scelte e aiutare il cammino quando il coraggio scema e la vita ci travolge. Questo forse l’antidoto alla follia, all’Isis come a Cogne.
Lasciarsi avvolgere dall’esistenza come da un caldo abbraccio anche quanto tutto sembra perduto, invocare la luce profonda che albeggia sempre nel profondo, ascoltare il sospiro di un battito d’ali, il fruscio di un petalo cadente, osservare i colori di una foglia d’autunno e guardare lontano…per non arrendersi alla bestialità e al cinico decadimento inferto dai tempi.
Lungo i viali tra una baracca e l’altra sembra di percepire un soffio, una tenue speranza. Sembra di scorgere un cuore palpitare e promettersi che mai più nulla di simile accadrà, che non è accaduto invano, che ogni passo di dolore è stato un piccolo grande sentiero verso un amore maggiore. Come sono sopravvissuti, dentro, i sopravvissuti dei campi?
E questa voce, mi è sembrato di udire: “Se coltivi la vita nel profondo, la vita stessa in qualche modo correrà in tuo aiuto. Se alimenti anche una piccola scintilla di interiorità, se guardi lontani, in alto, ancora più su nel cielo infinito ma soprattutto nel didentro dell’anima ancora più infinita, se non scappi da te stesso ma ti costeggi dappresso come si porta a scuola un bambino e fai pace con la tua metà oscura, se continui a sognare, evocare potenze di luce per trasformare il dolore in armonia, l’attesa in speranza, la solitudine in un nuovo inizio, se continui a cercare il senso profondo e la connessione invisibile che ci collega tutti sotto lo stesso destino, allora non potrai mai morire”...
E risorgeranno i volti ritratti in quelle foto. Risorgeranno nei ricordi, negli sguardi, nelle decisioni di oggi operate e sostenute da tutti noi, che siamo qui, ancora viventi.
 Elisabetta SALVATI