Ordini Cavallereschi Crucesignati

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martedì 27 maggio 2008

CARABINIERI 11

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L'assassinio di Umberto I
Premessa
Dopo Adua, la fine di un secolo e l'inizio di un altro. Finisce l'epoca crispina per lasciare il posto all’era giolittiana, non senza sussulti e drammi: Bava Beccaris, il regicidio di Monza, nuovi sogni coloniali che si materializzeranno dieci anni più tardi nello "scatolone di sabbia" (la definizione fu di Salvemini) della Libia. Tragedie bibliche, come il terremoto di Messina, e piccole grandi calamità che videro sempre i carabinieri in prima linea. E poi antiche piaghe, non ancora debellate, come il brigantaggio che infestò in quegli anni anche la Toscana e, in particolare, la Maremma. Una terra avara, dove la malaria era di casa.
Tra i canneti di quelle plaghe allignava la trista pianta del brigantaggio, favorita spesso dall'arrogante prepotenza dei grandi proprietari terrieri e dei loro ottusi soprastanti. Come quel certo Angelo Del Bono, che per conto del ricco marchese Guglielmi vessava i contadini locali. La roba del padrone, come rammenteranno gli spettatori delI’”Albero degli zoccoli", una realistica opera di Ermanno Olmi su un duro mondo contadino ancora vivo agli inizi del secolo, era più sacra dell'ostia consacrata.
L'Italia difficile della fine del secolo
Gli ultimi anni dell'Ottocento portarono una serie di gravissimi problemi: il brigantaggio in Maremma, i disordini sociali e gli attentati degli anarchici. Mentre i carabinieri…
Fu terribile, per esempio. il destino riservato al brigante Vincenzo Pastorini, che aveva provato a idicolizzarlo quando Domenico era sfuggito in mutande a una pattuglia dei carabinieri. Pastorini fu ucciso in un duello sull'aia, fulminato dalla doppietta di Tiburzi. Una palla in testa e una al cuore si era beccato mentre dormiva Basilietto (Giuseppe Basili), perché rapinava i mercanti senza l'autorizzazione dei capo. Anche un capraio di Terracina che rubava spacciandosi per Domenichino fu raggiunto dalla sua vendetta.
CARTA BIANCA A GIACHERI. Il governo non poteva tollerare le scorribande di quella primula rossa e fu deciso di inviare sul posto qualcuno che fosse in grado di mettergli le mani addosso. L'incarico toccò, ancora una volta, a un piemontese. Baffoni neri alla Francesco Giuseppe (il longevo imperatore d'Austria), testa alla Yul Brinner, sguardo severo e duro, il capitano Michele Giacheri si era fatto le ossa in Calabria, laureandosi con la distruzione a Milano (1884) della famigerata "compagnia della teppa". Dopo di che aveva mietuto successi nel triennio 1890?92 tra Formia e Gaeta catturando briganti di ogni taglia. Nato a Murazzano (presso Mondovi), la sua famiglia discendeva dai conti De Albertis de Wilneuve che avevano dato alla patria uomini di lettere ed ammiragli.
Quando Giacheri arrivò a Grosseto correva la voce che il brigante fosse morto. "Ella viene a catturare una leggenda", gli disse qualcuno. Giacheri non si fece fuorviare da queste illazioni e cominciò a percorrere instancabilmente in lungo e largo il regno del brigante, spacciandosi per un topografo francese. Domenichino godeva di finanziamenti piuttosto stabili, derivanti dal "pizzo" che pretendeva da tutti i possidenti locali in cambio della protezione dalle incursioni di piccoli delinquenti, e disponeva di una fittissima rete di complici, molti dei quali contadini, sempre pronti a tenerlo informato di eventuali indagini in corso sul suo conto o di tranelli preparati contro di lui. Perfino una taglia di ben 10.000 lire (una somma enorme per quei tempi) non aveva sortito alcun effetto: il bandito si spostava prudentemente da un luogo all'altro per evitare di essere localizzato e rafforzava il suo dominio di terrore, ammazzando le spie che lo minacciavano.
La pattuglia stava per tornare alla base quando un confidente rivelò al carabiniere Ciro Cavallini che in uno dei casolari dei dintorni il brigante avrebbe dovuto passare la notte. Sotto una pioggia divenuta torrenziale, molti coloni vennero tirati giù dal letto mezzi assonnati. Niente di niente, forse ancora una volta l'inafferrabile Tiburzi l'aveva fatta franca.
FINO ALL'ULTIMO BANDITO. Sono le tre e trenta quando davanti alla casa colonica Le Forane si presentano i carabinieri. I cani abbaiano e due figure compaiono alla porta. "Chi va là?". Partono due fucilate, i militi rispondono e il vecchio brigante viene colpito a morte (24 ottobre 1896). Anche a lui é riservata la tradizionale macabra foto, vestito di tutto punto, con il fucile nella mano irrigidita, mentre ai componenti della pattuglia viene conferita la medaglia d'argento.
Una foto ritrae questi valorosi dopo la cerimonia. Appaiono rilassati, qualcuno con l'ombra impalpabile di un sorriso, accuratamente nascosta dai baffi, due addirittura con il berretto da fatica sbarazzinamente portato sulle ventitré.
Uno di loro si lascia andare a un commento davanti al cadavere del brigante, eliminato nell'anniversario delle nozze del re: "Questo è il nostro dono di nozze alla principessa Elena: il regno di Tiburzi". "Non è mica completo" (ancora sei accoliti sono in libertà). "Ebbene noi lo completeremo".
Il brigante Musolino
Quando la televisione non c'era ed il tempo delle feste era finito, qual era il passatempo dei bisnonni? Oltre a quelli più ovvi, c'erano la lettura per i più colti e le leggende popolari per gli analfabeti. Naturalmente anche allora la cronaca di fatti sensazionali la faceva da padrona, e Giuseppe Musolino era un brigante con un senso dell'immagine piuttosto sviluppato. Le sue vicende furono seguite con morbosa passione dalla stampa nazionale e dai cantastorie popolari, creandogli un alone di leggenda e di romanticismo che nulla aveva a che vedere con la realtà,
Viene arrestato sei mesi più tardi e condannato per tentato omicidio alla pesante pena di ventun anni.. Dalla gabbia, Musolino grida: "Ho ventun anni e sono stato condannato a ventuno! ma uscirò prima per vendicarmi". Due anni dopo (1899) mantiene la promessa e si trasforma in un ciclone omicida. Ferisce un accusatore e ne ammazza la moglie, poi fa saltare con la dinamite la casa di un altro ed infine ammazza un giovane che sta in procinto di arruolarsi nell'Arma. Per tre anni semina il terrore e nessuno riesce a catturarlo, nemmeno con l'aiuto di una taglia. E’ ormai un mito che riesce a beffare a piacimento la legge.
Solo nella primavera del 1902 l'aria per il bandito diventa irrespirabile perfino in Aspromonte e inizia così una lunga marcia per la penisola che si conclude nel paese di Acqualagna (Urbino) dove, pur essendo travestito da contadino, perde la testa davanti a due carabinieri in normale giro di pattuglia. Tenta di fuggire, e in questo modo si tradisce. I carabinieri gli intimano l’altolà e si gettano all'inseguimento. Musolino è più veloce di loro e sta per dileguarsi quando inciampa in un fil di ferro che tiene i pali di una vigna. La leggenda popolare gli metterà in bocca la rabbiosa esclamazione "Chillu filo" mentre viene immobilizzato. Portato in caserma dice al brigadiere Mattei (il padre del futuro Enrico Mattei, presidente dell'ENI) di essere un contadino di Pesaro, ma l'accento calabrese lo tradisce.
Davanti alla Corte d'assise di Lucca, Musolino pronunzia un'autodifesa apparentemente sconnessa, ma a effetto per il pubblico popolare: "Se mi assolveste, il popolo sarà contento della mia libertà. Se mi condannaste, fareste una seconda ingiustizia come pigliare un altro Cristo e metterlo nel tempio. Eppoi, vedete, io non sono calabrese, ma di sangue nobile di un principe di Francia. Chi condannate? Un cadavere, perché io posso avere cinque o sei mesi di vita al più". Parole destinate a restare celebri, ma che non gli evitano l'ergastolo. Trascorrerà in carcere 54 anni. Graziato nel 1946, passerà i restanti 10 anni della sua vita come ospite del manicomio di Reggio Calabria.
Per i carabinieri non è però finita. Come in un serial di secondo ordine, spunta nel Salernitano "il nuovo Musolino", al secolo Francesco Parisi. Bisognerà, nel 1907, intercettare l'amante del bandito con i soldi di un ricatto per localizzare il malvivente e finirlo al termine di una movimentata e furiosa sparatoria nei boschi.
Gli anarchici contro il Re
Se il brigantaggio continuava ad infestare le campagne, la situazione politica e sociale del Paese non era delle migliori. La caduta di Crispi in seguito alla sconfitta coloniale di Adua (1895) aveva lasciato un vuoto politico che il re Umberto I si era limitato a coprire proponendo il generale Ricotti alla Presidenza del consiglio. Il generale si rese conto da solo di non essere la persona adatta. Venne così richiamato un conservatore, il marchese di Rudinì, un uomo di buon senso, che chiuse con misure di pacificazione i moti sociali dei Fasci Siciliani, ma che mancava di una visione di insieme per affrontare in profondità i problemi del Paese.
La grave situazione interna è ben riassunta da un discorso pronunciato dal grande statista Giovanni Giolitti nel 1899: "In Italia, Paese di salari bassissimi, i generi di prima necessità sono tassati più che in qualsiasi altro Paese del mondo; il complesso delle imposte è giunto a tale altezza da costituire talora una vera confisca della proprietà; le imposte colpiscono più gravemente i poveri che i ricchi; ... la giustizia ... è lenta, costosissima e senza sufficienti garanzie; ... abbiamo un vergognoso primato nella delinquenza comune; l'istruzione elementare è insufficiente, la secondaria e l'universitaria così organizzate da costituire vere fabbriche di spostati... E’ urgente che il governo ed i partiti costituzionali si persuadano che il Paese non presta più fede alcuna alle promesse, e che solamente con un'energica azione, con un radicale mutamento d'indirizzo, si può riacquistare la fiducia delle popolazioni".
“LO SAPRETE DOMANI”. In Italia il simbolo negativo, per gli anarchici, è senza dubbio il re. Sono passati quasi venti anni dal fallito attentato di Passanante e la sera del 20 aprile 1897 il fabbro ferraio Pietro Acciarito saluta per l'ultima volta il padre. "Addio, non ci rivedremo più”. “Dove vai", gli chiede allarmato il padre, "Non ve lo posso dire".
'”In America? in Francia? o ti vai a uccidere?". “Padre, non domandatemi altro: lo saprete domani". Sempre più inquieto il padre, da buon suddito (è nato lo stesso giorno del re e ha chiamato Vittorio e Pietro Umberto i suoi figli), decide di andare al commissariato. "Signor commissario, l'ho sentito troppe volte bofonchiare di strane cose, di uccidere un pezzo grosso, temo che commetta qualche sproposito". "Non vi preoccupate avvertiremo chi di dovere".
E in effetti il commissario diligente inoltra rapporto alla questura, ma non fa i conti con la burocrazia: il documento resta fermo da qualche parte e nessuno avvisa i carabinieri.
La mattina del 22 aprile Umberto I esce dal Quirinale per andare all'ippodromo delle Capannelle per assistere al Derby Reale, dotato dal sovrano di un monte premi di 24.000 lire. Ci va senza scorta (forse non vuole dare rilievo a questa visita) e su una carrozza aperta, una elegante “vittoria” (dal nome della regina del Regno Unito).
Acciarito è appostato nei pressi di Ponte Lungo, il pugnale avvolto in un panno rosso, e quando vede la leggera carrozza senza scorta sale di slancio sul predellino. Il pugnale si leva, il re evita il colpo. La lama resta inerte nel mantice della carrozza.
Acciarito si allontana dal luogo con passo tranquillo, ma viene fermato subito. Ai poliziotti l'attentatore spiega: "L'attentato? Non mi piaceva veder dare 24.000 lire ad un cavallo". "Sono gli incerti del mestiere", conclude con filosofica ironia il sovrano, che ancora non sa che il suo destino è comunque segnato.
Nel maggio 1898, dopo l'ennesimo tumulto nel quale sono rimasti uccisi due poliziotti, il generale Fiorenzo Bava Beccaris scatena a Milano la truppa contro la folla. Non si tratta più di baionette e di spari ad altezza d'uomo, si usa direttamente il mortaio ed il cannone, anche caricato a mitraglia, per di più falciando per sbaglio una folla di mendicanti intorno ad un convento. Per quattro giorni gli scontri urbani continuano.
Il re decora solennemente con la gran croce dell'ordine militare di Savoia il generale Bava Beccaris, soprannominato "il macellaio di Milano", un gesto inopportuno, in contrasto con il lutto pubblico.
Quando la sera del 29 luglio 1900 re Umberto entra nel campo sportivo di Monza é protetto da un forte servizio d'ordine, ma la sua sorte è segnata.Bresci si è già disposto ad una decina di metri dal palco reale e attende pazientemente il momento critico in cui il re uscirà in carrozza. Nella confusione le distanze si accorciano e la pistola vomita tre colpi. Umberto muore e i carabinieri a stento riescono a sottrarre Bresci alla furia degli atleti presenti. Senza il loro intervento l'anarchico verrebbe barbaramente massacrato a colpi di mazza.
Dodici anni dopo il successore Vittorio Emanuele III sarà protetto dai corazzieri in un'analoga occasione. Questa volta il luogo dell'agguato è nei pressi di palazzo Salviati, dove Antonio D'Alba esplode due colpi contro la carrozza del re proprio mentre questi si reca a una messa di commemorazione del padre. I carabinieri però notano l'insolito movimento e si stringono intorno alla vettura. Il cavallo di un brigadiere si prende la prima pallottola, mentre la seconda colpisce alla testa il capo della scorta, maggiore Giovanni Lang. Il re viene salvato da un vero e proprio scudo umano.
Il terremoto di Messina
28 dicembre 1908. "Stamani alle 5,21 sugli strumenti dell'Osservatorio Sismografico è incominciata una impressionante, straordinaria registrazione. Le ampiezze dei tracciati sono state così grandi che non sono entrate nei cilindri: misurano oltre 40 centimetri". Dietro questa scientifica registrazione del direttore dell'Osservatorio, padre Alfani, si rivela uno dei più gravi cataclismi naturali che abbiano mai colpito l'Italia.
Alle 5,20 sullo stretto di Messina si ode un boato terrificante, cui segue un terremoto di spaventosa intensità. Intere fronti di edifici come la Palazzata, orgoglio e vanto di Messina, si disintegrano come colpiti da un'onda d'urto nucleare mentre le banchine del porto sono letteralmente inghiottite dal mare. Un vento sovrumano scaraventa lontano come giocattoli di latta interi convogli ferroviari, svellendo dal suolo le rotaie.
Poco dopo onde alte una decina di metri si abbattono come un gigantesco maglio liquido sull'entroterra. Quando la furia delle acque si placa, dalle condutture del gas ormai contorte e dalle case sventrate si leva minaccioso il fuoco devastatore degli incendi. Non pochi superstiti del terremoto di Messina sono folli dal terrore.
Le riceventi dei telegrafi installati a Roma cominciano a ticchettare sinistramente i primi dati dell'immane disastro, in cui si dice che sulle due sponde dello Stretto sono perite almeno 110mila persone. Non c'è nemmeno l'idea, allora, di una protezione civile e naturalmente i primi che si muovono sono i militari.
Un'intera divisione navale su tre corazzate vira a tutta forza dalla Sardegna facendo rotta verso la Sicilia. Il re, con i primi carichi di medicinali, si imbarca su una di esse. Navi delle flotte francese, inglese e russa si lanciano in una corsa di solidarietà. La città viene divisa per settori e cominciano ad affluire dalle legioni vicine e lontane contingenti di carabinieri. E ce n'è davvero bisogno.
Il 3 gennaio il prefetto straordinario proclama lo stato d'assedio perché gli sciacalli sono diventati una vera piaga, talvolta agiscono per bande e sono armati. I tribunali militari, pur cercando di usare una certa clemenza in mancanza di prove certe, non esitano a passare per le armi i delinquenti più feroci.
L'Arma verrà decorata di una medaglia d'oro di benemerenza, appositamente istituita per l'occasione. Il maggiore Carlo Tua ed il vicebrigadiere Mario Realacci se la vedranno appuntare sul petto, una volta passato l'incubo di quelle giornate. Seguono per altri commilitoni 32 medaglie d'argento, 82 di bronzo, 33 menzioni onorevoli e 1.029 encomi solenni.
Un anno dopo, le benemerenze dei Carabinieri Reali anche nel terremoto di Messina verranno solennemente ricordate in occasione del centenario della fondazione dell'Arma e per il varo dei due cacciatorpediniere gemelli Carabiniere e Corazzier
Nuove regole per l'Arma
Talvolta l'immagine dei Carabinieri sembra presentarsi come un monolitico blocco di bronzo pressofuso. Sempre uguali, sempre fedeli, sempre immutabili, tranne qualche dettaglio nelle divise e nell'armamento. Invece, come in ogni organizzazione complessa, l'ambiente esterno influisce moltissimo sulla vita interna dell'istituzione, ma in modo meno visibile perché molti sono i filtri e i livelli decisionali.
All'inizio del secolo, con tutti i mutamenti politici e culturali attraversati, era ormai maturata l'esigenza di un nuovo regolamento che sostituisse le sorpassate normative del 1° maggio 1892. Nelle grandi linee si cercava di salvaguardare i principi del regolamento basilare del 1822.
Tripoli, bel suol d'amore
L'avvento del secondo governo Giolitti nel 1903 aveva aperto una luminosa parentesi di liberalismo dopo i travagliati periodi del governo liberticida del generale Pelloux ed il regicidio di Umberto I. Giolitti aveva capito che lo Stato non poteva essere asservito indefinitamente agli interessi del blocco agrario-industriale nella repressione sanguinosa degli scioperi. E aveva deciso di varare una serie di urgenti riforme sociali tra cui una legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli ed un'ulteriore riforma della pubblica istruzione.
Si conquista la quarta sponda
Per qualche anno l'operazione si sviluppò senza problemi. Il Banco di Roma si assicurò alcune concessioni minerarie diventando in breve il maggior proprietario terriero del Paese con un consistente controllo sui mulini e su parte della pesca delle spugne. I problemi sorsero quando i nazionalisti turchi presero il potere a Istambul e controbilanciarono la presenza italiana con il potere di colossi tedeschi come la Krupp, la Deutsche Bank e la Siemens. L'appalto per i lavori del porto di Tripoli, vinto da una ditta italiana, fu lasciato cadere dal governo turco. L'allarme suonò per tutti gli interessi politici ed economici legati alla Libia, tanto più che vi era il sentore che Francia ed Inghilterra non fossero tanto indifferenti sulla questione libica. Giolitti, che si preparava ad affrontare nuove elezioni di massa, impartì i primi ordini di studiare l'attacco alla Libia nell'estate del 1911. Le condizioni meteorologiche erano favorevoli e buona parte degli ambasciatori stranieri, si trovavano in vacanza. Tuttavia la necessità di agire segretamente e presto impedì la piena preparazione dello strumento militare, nonché una seria analisi della situazione complessiva in Libia.
ALAMARI TRA LE DUNE. Il primo ad arrivare fu l’onnipresente capitano Federico Craveri, autentico globe-trotter dell'Arma, inviato speciale ogni qual volta vi fosse da risolvere un problema spinoso. Questa volta occorreva ristabilire l'ordine a Tripoli e Craveri arruolò subito elementi arabi nella polizia. Nel giro di un giorno le botteghe ed il mercato potevano riaprire, ma occorreva comunque sostituire i cinque preesistenti battaglioni di gendarmeria turca
Come se la guerra non bastasse, anche il colera decise di reclamare le sue vittime e toccò ancora una volta ai carabinieri assistere la popolazione, disinfettare i locali, sgombrare i cadaveri. Le sezioni di guerra dell'Arma erano impegnate in tutte le battaglie difensive ed offensive nella Cirenaica e nella Tripolitania: Henni, Ain Zara, Bir Tobras, Sidi Abdallah.
Ai primi del 1912 dall'Eritrea giunsero 29 zaptié scelti tra gli elementi più affidabili in modo da stabilire contatti più diretti con la popolazione libica. I migliori zaptié diventarono istruttori della Scuola Allievi Zaptié, fondata il 10 febbraio 1912, mentre il 13 marzo la compagnia allievi zaptié assorbì 25 nuovi allievi oltre ai restanti elementi turco-arabi perché compissero un corso integrativo.
Finché non verranno conclusi nel 1915 l'accordo di Acroma e quello di Regima, che stabiliranno una sorta di pace coi senussiti in cambio dello sgombero dell'entroterra della Cirenaica, la storia dei Carabinieri in Libia sarà tessuta di eroiche resistenze in posti abbandonati da Dio e dagli uomini e di vane cacce a guerriglieri che sapevano sfruttare a fondo il deserto. Un'altra pagina poco nota scritta dai militi con il silenzio ed il sacrificio. Ne affronteranno di ben più grandi e laceranti nella Grande Guerra che ormai incombe nefasta sulla prospera Europa.
per approfondimenti Arma Carabinieri
La Grande Guerra
Premessa
Ancora oggi, quasi ottant'anni dopo, la terra rende i resti corrosi e quasi privi di senso di un conflitto che nella nostra coscienza collettiva è ormai lontanissimo: elmetti, resti di granate, brandelli di tenace reticolato. Non pochi dei nostri padri lo hanno vissuto da bambini (non a caso molti di loro furono battezzati Vittorio, come celebrazione o come auspicio), quasi tutti i nostri nonni ancora in vita ci sono passati. Quello che per noi è “roba da prima guerra mondiale", per loro è la Grande Guerra.
La prima guerra che diede all'umanità il senso di massa della mostruosità di un conflitto industrializzato (nel quale valeva ormai poco il valore individuale e nulla il codice cavalleresco) ebbe inizio con un attentato terroristico, di cui rimase vittima l'erede al trono dell'Austria-Ungheria, Franz Ferdinand, con sua moglie, in una città anche oggi straziata dalla guerra: Sarajevo. Lo studente bosniaco Gavrilo Princip. anche lui convinto della necessità di cambiare il suo mondo con un gesto esemplare, riuscì a piazzare una rosa di pallottole sulla bianca divisa del principe e sul ricco abito della sua sposa. Fu la campana che suonò per il vecchio impero multinazionale e per tutta un'Europa, convinta dell'inarrestabilità del progresso ma ancora fortemente contadina. Nulla sarà più come prima.
Da una scintilla la catastrofe
L'attentato di Sarajevo fu la causa accidentale che provocò la Prima Guerra Mondiale, un grande massacro che rivoluzionò la carta geografica dell'Europa
Sarajevo fu la scintilla, Gavrilo Princip l'artificiere. I compassati signori in cilindro, marsina e feluca delle cancellerie europee erano impegnati a seguire, con sobria attenzione, gli eccitanti ed intricati sviluppi dell'ennesima crisi locale.
L'espressione "polveriera dei Balcani” è vecchia come le nostre nonne. La Turchia, dopo la rivoluzione modernista dei giovani turchi, aveva capito che solo concedendo l'autonomia ed eventualmente l'indipendenza ai popoli slavi ad essa sottomessi poteva sopravvivere. La Serbia coltivava già allora il grande sogno di essere il faro e la guida dei popoli slavi meridionali. L'Austria si sentiva sul collo il fiato degli irredentismi locali. Con una mossa a sorpresa, Vienna procedette all'annessione della Bosnia-Erzegovina di cui deteneva l'amministrazione, appoggiata senza riserve da Berlino. La Russia, grande protettrice di tutti gli slavi, non digerì l'iniziativa anche se fu costretta a subirla. Francia, Germania e Inghilterra si studiavano con sospetto e intanto si armavano. Londra e Berlino rinforzavano la loro flotta navale, composta di navi con linee stupende, che svolgeranno un ruolo marginale nel conflitto.
Serbia, Bulgaria, Grecia e Montenegro sentivano che l'ora della riscossa contro l'odiato oppressore turco stava arrivando e nel 1912, stretti nella Lega Balcanica, attaccarono e sconfissero i turchi, indeboliti dalla guerra in Libia. Subito dopo, i compagni di strada erano già pronti a prendersi per la gola. Furono i bulgari, inebriati dal successo, a scatenare la seconda guerra balcanica (1913) per imporre la loro volontà a Serbia e Grecia. Gli andò male: intervennero Turchia e Romania e la partita fu vinta dalla Serbia, che ebbe il territorio raddoppiato e il prestigio moltiplicato per mille. Soltanto un'illusione: Belgrado si trovava ormai a fronteggiare direttamente Vienna e la vecchia capitale mitteleuropea non poteva tollerare oltre il processo di disgregazione dell'impero.
L'atmosfera politica internazionale era carica di elettricità: Francia e Germania erano rimaste rivali e la Germania giunse alla graduale convinzione che la Russia volesse una guerra per frenare l'egemonia prussiana. La gigantesca tenaglia franco-russa avrebbe impaurito chiunque: il programma di riarmo pluriennale di Pietroburgo e l'approvazione della ferma triennale in Francia (1913), nonché il riavvicinamento politico tra queste due Potenze, legittimavano le previsioni più fosche.
Alcuni incerti tentativi di mediazione non ebbero effetto e pochi giorni dopo scoppiava la guerra, una piccola guerra locale per mettere a posto quattro slavi arroganti. E invece, come in un mortale Risiko, la Russia decretò la mobilitazione parziale, e Berlino lanciò l'ultimatum (31 luglio) perché fosse sospeso il concentramento di truppe zariste. La Francia rispose a Berlino che avrebbe badato ai suoi interessi in un eventuale conflitto russo-tedesco.
UN RISIKO MORTALE. Il 1° agosto vi furono la mobilitazione simultanea di Francia e Germania e la dichiarazione tedesca di guerra allo zar. Un giorno dopo il Belgio rifiutò la richiesta per il transito di truppe tedesche quando ancora tecnicamente i due Paesi non erano in guerra. Per tutta risposta, il 3 agosto la Germania dichiarò guerra alla Francia scardinando la frontiera belga; il giorno seguente Londra dichiarava guerra alla Germania.






Nessuno aveva capito (e meno degli altri i militari) che l'artiglieria avrebbe dominato la scena, il filo spinato avrebbe avvolto in una ragnatela assurda ogni piano tattico e strategico e che la mitragliatrice, un goffo tubo di stufa senza baionetta, avrebbe detto l'ultima parola.
CALVARIO DI FANGO. All'inizio non sembrò davvero così. L'avanzata tedesca su Parigi fu fulminante, Joffre salvò la Francia in extremis sulla Marna, i generali tedeschi Hindenburg e von Ludendorff schiantarono con sapienti manovre ferroviarie i russi a Tannenberg ed ai laghi Masuri, i russi sfondarono il fronte austriaco a Rava Ruska in Galizia, con 750 treni i tedeschi volarono in soccorso degli austriaci e con una complicatissima e selvaggia battaglia a Lodz bloccarono l'avanzata russa.
Pochissimi generali hanno capito che questa è una guerra d'assedio che si combatte con meno eroismo e con più metodo. I tedeschi mettono a punto la tattica di infiltrare con reparti scelti le prime linee nemiche e poi lanciare attacchi brevi e concentrati, mentre tutti gli altri fino all'arrivo del carro armato (un rozzo schiacciafili spinati) vanno avanti a lanciare reggimenti al massacro.
La nostra entrata in Guerra
In tutto il bailamme del 1914 l'unica grande assente è l'Italia. Visto che l'Austria non si è consultata prima di dare inizio alle ostilità e che soprattutto ha dichiarato guerra mentre la Triplice Alleanza prevedeva l'assistenza reciproca solo in caso di difesa da un attacco, Roma non si ritiene legata da quel patto.
Il Paese è agitato dal dibattito fra interventisti e non interventisti, ma i carabinieri sono all'opera da diverso tempo con discrezione ed efficacia. La Triplice era in crisi da parecchi anni e i carabinieri nelle stazioni venete di confine avevano attivato un discreto servizio d'informazioni. Anche allora erano seguite avidamente le storie di spie bellissime, amanti infide di potenti ambasciatori e gallonati generali, ma la normale realtà dei servizi era molto meno seducente.
I servizi di informazione compivano ogni genere di azione. Ricordate le fughe incredibili attraverso il Muro di Berlino? Ottanta anni fa la cortina di ferro esisteva per gli irredentisti italiani che non volevano servire più sotto l'odiata aquila bicipite, specie, se erano ufficiali dell'imperial-regio esercito come il barone Raimondo Buffa. A risolvere il problema provvide il servizio segreto. Prima un'opportuna convalescenza tolse il barone dal servizio attivo, poi la moglie preparò un pacco di biancheria da spedire. Al ritiro, in luogo sicuro, i carabinieri aprirono la cesta dalla quale uscì l'irredentista.






Il 26 aprile 1915 l'Italia firmò il patto di Londra con il quale si impegnava ad entrare in guerra entro un mese
IL PODGORA MALEDETTO. Ancora una volta le nostre forze armate, in apparenza moderne e potenti, avevano sofferto di due mali piuttosto cronici nella storia militare nazionale: improvvisazione e sottocapitalizzazione. La prima era conseguenza della criminale segretezza con cui erano state condotte le trattative di Londra. Salandra era talmente ansioso di condurre in porto il suo complesso gioco politico che non aveva nemmeno informato il capo di Stato maggiore dell'esercito, in modo che si potessero approntare i piani necessari dopo un così radicale rovesciamento delle alleanze. La seconda derivava dall'inveterata tendenza a fare, come si dice, “le nozze con i fichi secchi", specialmente nel campo militare, salvo poi indignarsi per le spese militari eccessive e flagellarsi alla prima sconfitta.
Il 24 maggio le truppe varcarono solennemente il Piave con l'intento, peraltro logico, di avanzare oltre l'Isonzo puntando su Lubiana e riducendo il pericoloso saliente del Trentino, ma le vere operazioni poterono cominciare soltanto a metà giugno.
La prima offensiva dell'Isonzo si concluse con 1.916 morti, 11.500 feriti, 1.600 tra dispersi e prigionieri con le truppe aggrappate (in condizioni di autentica disperazione) in trincee di fortuna ai bordi dell'altopiano carsico e bersagliate costantemente dal nemico in posizione dominante.
Fu necessaria uni seconda offensiva, sempre con l'obiettivo di prendere i punti chiave della difesa di Gorizia e di allargare le teste di ponte oltre l'Isonzo. A questa seconda azione prese parte il reggimento Carabinieri Reali, al comando del colonnello Antonio Vannugli. Si trattava di una unità pianificata da lungo tempo (1905), costituita di fresco due giorni prima dello scoppio del conflitto, composta dalle compagnie della Legione Allievi e da volontari delle Legioni territoriali di Firenze, Ancona, Palermo, Bari e Napoli, forte di 2.500 uomini e 65 ufficiali. Il morale degli uomini era altissimo, le divise erano i tipici grigioverde da combattimento, quasi identici per tutte le armi e tutti i reparti.
La vigilia del macello
Sono le memorie di un allora giovane tenentino, Franco Mazzarelli, poi divenuto un severo generale, a restituire intatte le sensazioni di quell'unità votata al sacrificio. La missione dei due battaglioni del reggimento è di passare attraverso una breccia aperta con una poderosa offensiva ed entrare per primi a Gorizia in modo da assumere subito il controllo della città. Un compito importante che agli occhi degli uomini è secondo solo alla voglia di affrontare direttamente il nemico.
Il pomeriggio del 6 luglio, con tutti gli ufficiali a rapporto, vengono fuori altri dettagli scoraggianti. Non ci sono quegli articoli di uso corrente come borracce per l’acqua, bombe a mano, pinze tagliafili, maschere antigas. Abituati ad un'organizzazione che funziona, i carabinieri fanno partire il tenentino per il comando di corpo d'armata a Cormons con le richieste. "No, guardate, per voi a breve non è previsto nessun assalto. Dovete invece andare in trincea sulla collina del Podgora ed aspettare un po'. I materiali? Per ora non c'è fretta. Ve li facciamo arrivare appena possibile". Non è che l'organizzazione non esista, ha soltanto regole kafkiane a cui tutti devono rassegnarsi, carabinieri inclusi.








Musi lunghi, ma ancora molta voglia di battersi, i carabinieri raggiungono le posizioni di Lora Podgora di fronte alla famigerata quota 240 e danno il cambio al 36° Fanteria. Le trincee sono in un punto raccapricciante, dominato interamente dal fuoco nemico, e sono ammorbate da un tanfo nauseabondo non solo per gli escrementi, ma anche per i cadaveri insepolti nella terra di nessuno. I militi tengono duro, nonostante tutto, nonostante i turni pesanti, il rancio gelido una volta al giorno e le infezioni intestinali coleriformi. Continuano a scavare sotto il fuoco nemico quei camminamenti protetti di avvicinamento a quota 240 che serviranno per l'assalto finale.
Il 18 luglio arrivano i primi ordini di combattimento in occasione di una dimostrazione per appoggiare un attacco nel settore vicino. Solo allora arrivano 80 pinze tagliafili, poche vecchie maschere antigas e 50 bombe a mano, quanto basta appena per una compagnia. Comunque le azioni di danneggiamento ai reticolati hanno un discreto successo e comportano perdite in numero limitato. Il 19 dal comando di brigata Pistoia arriva l'ordine di assaltare per le 11 la quota 240. Alle 10,20 un batteria di cannoni a tiro rapido da 75 millimetri comincia a battere i nidi di mitragliatrici avversari. Mancano pochi minuti al macello.
COME ALLA PARATA. Alle 11 precise il colonnello Vannugli comanda: "Avanti per l'assalto!". Segue l'ordine "Alla baionetta" e l'indimenticabile "Savoia!" al momento di uscire dalle trincee. Chi ha visto il film Uomini contro o ha letto Un anno sull'Altopiano di Emilio Lussu può facilmente visualizzare la scena.
Secondo gli ordini, l'assalto del reggimento Carabinieri Reali deve essere compiuto alla baionetta e senza sparare. Nemmeno un colpo parte da quegli uomini che continuano a manovrare sotto la falce impazzita della morte come se fossero in piazzi d'armi e che cercano di proteggere i loro ufficiali. Gli austriaci non solo riescono a bloccare col fuoco l'avanzata di quei valorosi, ma piazzano una mitragliatrice quasi alle spille degli attaccanti con effetti devastanti. Gli italiani non si sbandano e non arretrano di un pollice. Perfino gli austriaci sono colti dal fascino di quella scena di strage irreale. Alla fine, decimati ma non fiaccati, i militi ricevono l'ordine di fermarsi e riorganizzarsi per respingere un contrassalto, mentre si progetta di compiere un altro sforzo con altra fanteria. Per fortuna ci si rende conto che senza artiglieria sarebbe un sacrificio vario. Suona la ritirata. Quella maledetta quota non verrà mai espugnata all'assalto in tutta la guerra.
Sui sopravvissuti e sui cadaveri fioccano gli elogi. Arrivano tempestivi in ordine gerarchico quelli dei comandanti di brigata, divisione, corpo d'armata, armata e qualche anno più tardi quelli delle storie ufficiali. Arriveranno anche le medaglie: 9 d'argento, 33 di bronzo, 14 croci di guerra. Povere cose rispetto alle vite sprecate nel grande carnaio.
Finalmente a Gorizia!
La guerra continua ed i carabinieri sono dappertutto per assicurare tutta una somma di servizi poco visibili, ma utilissimi: posti di sicurezza, piantoni fissi, vedette stabili di contraerea, ronde negli abitati, perlustrazioni sulle vie ordinarie e linee di tappa, vigilanza sulla realizzazione di opere militari, servizio di polizia sui treni, corrieri postali, prevenzione e repressione dello spionaggio, servizio informazioni, interrogatorio dei prigionieri, scorte valori, servizio di scorta alle autorità, servizio delle tradotte, scorte ai carreggi, salvacondotti e permessi, repressione della diserzione, vigilanza degli stabilimenti militari e repressione di reati ai danni dell'amministrazione.
I reparti vengono resi più agili e numerosi. Il glorioso reggimento Carabinieri Reali viene trasformato in tre battaglioni autonomi e tre compagnie autonome vengono create in aggiunta. Quando gli austriaci scatenano la Strafexpedition (spedizione punitiva) nel maggio 1916, i reparti autonomi vengono rapidamente riconfigurati in 39 plotoni. Il 16 giugno scatta la controffensiva e si aggiungono altri 24 plotoni di carabinieri.
Gli austriaci sono esausti e la loro logistica è in crisi, da maggio si combatte quasi senza interruzione. Il fronte comincia a scricchiolare: quell'Isonzo che sembrava invalicabile viene superato di slancio dalla marea grigioverde; quota 240, la Hamburger Hill dei Carabinieri, si arrende; chi ancora resiste accanitamente nelle caverne è spazzato dalle granate a mano e dai lanciafiamme.
Mentre l'Arma mobilitata ha triplicato i suoi effettivi nell'ottobre 1917, quella territoriale comincia con la legione provvisoria autonoma Carabinieri Reali ad espandere nei territori appena liberati la sua rete di controllo. Il comando si trova ad Udine, mentre i comandi delle due Divisioni sono ad Udine e Gorizia. La rete è infittita da una Divisione della legione di Verona dislocata nella provincia di Udine.
Prima e dopo Caporetto
Pochi giorni prima che gli austrotedeschi vibrassero la loro mazzata tra Tolmino e Caporetto, si tenne a Villa Vicentina (12 settembre 1917) una grande cerimonia per la consegna di 35 medaglie al valore ai militi dell'Arma, destinata a rinsaldare il morale e ricordare gli eroismi fino ad allora compiuti. Sua Altezza Reale, il Duca d'Aosta, comandante della Terza Armata, pronunciò con orgoglio la chiusa del suo discorso: “La vostra missione è di pace e di guerra. o benemeriti soldati. Pace bellique, voi meritate, o Carabinieri, tutta intera la nostra riconoscenza, la riconoscenza dell'Italia. Bravi”.
Nell'aria aleggiavano ancora le parole di D'Annunzio declamate quattro mesi prima (il 12 giugno) per commemorare il capitano Vittorio Bellipanni, un altro eroe: "E’ l'Arma della fedeltà immobile e dell'abnegazione silenziosa; l'Arma che nel folto della battaglia e al di qua della battaglia, nella trincea e nella strada, nella città distrutta e nel camminamento sconvolto, e nel pericolo durevole, dà ogni giorno uguali prove di valore, tanto più gloriosi quanto più avara le è la gloria ......”
Guerra lampo? Non ancora. ma tra i gagliardi fanti bavaresi che scardinavano le deboli difese italiane vi era un tenente prussiano, un certo Erwin Rommel, che non dimenticherà la lezione appresa tra le nebbiose alture di Caporetto.
I nostri furono presi in contropiede, sotto tutti i punti di vista.
Nel giro di cinque giorni gli austro-tedeschi raggiunsero la linea del Tagliamento, vanificando gli sforzi di due anni di guerra e tante sanguinose battaglie. Il generale tedesco von Berrer fu audace da entrare a Udine a bordo della sua automobile: pagò cara la sua arroganza perché due carabinieri lo centrarono senza nemmeno chiedergli i documenti.
LA FEDELISSIMA. Fu in quei giorni bui e frenetici, mentre le truppe della Seconda Armata rifluivano penosamente verso i pochi ponti rimasti sul Tagliamento, che la Fedelissima si rivelò determinante. Soltanto un'arma d'élite, all’'obbedienza quasi gesuitica, poteva restituire una parvenza di ordine a una massa di soldati demoralizzati e fuggiaschi, incalzati dappresso dal nemico vittorioso.
Alla fatica del ripiegamento su tutto il fronte dalle Alpi al mare si aggiunsero amare e meschine polemiche. Cadorna non esitò a diffondere un disonorante comunicato in cui, per scagionarsi come comandante supremo, attribuiva la disfatta alla viltà dei propri soldati. Poi si scatenarono le accuse e i memoriali incrociati fra generali preoccupati soltanto di scaricare le proprie responsabilità: tutto sulla pelle dei poveri fanti.
Non bastava. Cadorna, convinto che fosse necessario un esempio punitivo ordinò sul posto la decimazione dei reparti: una misura disciplinare terribile che si adotta in casi estremi. E quello non era davvero un caso che giustificasse una misura del genere nei confronti di uomini costretti a combattere in condizioni disperate.
Alcuni mesi prima (aprile-maggio 1917) la decimazione era stata spietatamente applicata per reprimere la rivolta di tutto l'esercito francese esasperato dai massacri compiuti sulla sua pelle.
Decimare significa allineare alla meglio il reparto in questione e far percorrere le righe da ufficiali che tirano fuori un soldato ogni dieci a caso. “Tu, fuori. Uno, due, tre .... fuori tu!": in un silenzio di tomba risuonano le voci di morte tra i volti grigi di stanchezza dei soldati disfatti. Molti si incolonnano in silenzio verso una morte infame, qualcuno grida, piange, va condotto a forza, altri pregano.
C'è solo una cupa tristezza, il capo chino sotto la pesante responsabilità di un dovere ferreo e spietato, nei ranghi dei carabinieri ai quali è affidato l'orrendo compito. Un muro invisibile di odio separa i soldati innocenti, colpevoli solo di aver umanamente ceduto, e i militi, colpevoli di incarnare l'estremo senso del dovere anche di fronte ad ordini crudeli.
La scarica del plotone di esecuzione abbatte le vittime di questo rito sacrificale. I reparti hanno lavato un'onta non loro.
Verso la vittoria
Ci vogliono due meridionali e il generoso scatto di reni e d'orgoglio di tutta una nazione per rovesciare la situazione. Tocca al siciliano Vittorio Emanuele Orlando ricucire in fretta come presidente del Consiglio le ferite politiche e psicologiche della sconfitta. Tocca al napoletano di origini spagnole, Armando Diaz, ridare fiducia e conforto ai soldati violentati dalla sconfitta. Finalmente ci si cura di più del benessere fisico e morale dei combattenti. Si creano uffici di propaganda che spiegano alla truppa, in larga parte contadina e poco istruita, perché si combatte, e si impara a usare la truppa con maggiore criterio. In poche settimane la tempra della nazione spezza l'orgoglioso attacco austro-tedesco sul Piave: l'offensiva Radetsky segna l'inizio della fine del secolare e decrepito impero.
Decine di sezioni e plotoni di Carabinieri si distinguono nella tenace resistenza accanto ai loro commilitoni delle altre armi, meritando più volte l'encomio solenne. I marescialli Conrad von Hoetzendorf e Boroevic non credono ai loro occhi: dove sono quegli italiani che erano stati dileggiati come vigliacchi, buoni solo a scappare? Il baldanzoso grido di guerra "Nach Mailland" muore sulle labbra, non rivedranno mai più la Madonnina del duomo di Milano.
Nell'ottobre 1918 tocca finalmente agli italiani montare la loro offensiva, quella finale. A un anno esatto da Caporetto, il Piave viene ripassato dalle truppe italiane. Per tre giorni gli austro-tedeschi resistono con valore e disperazione, ma non c'è niente da fare contro la valanga grigioverde. Il fronte si spezza, i reparti slavi si ammutinano, così come la flotta austriaca a Pola, la cavalleria si apre a ventaglio nelle retrovie indifese. Trento e Trieste sono liberate.
Un contributo non trascurabile è stato dato anche dall'aviazione per la prima volta impiegata in massa nella Grande Guerra. Anche lì vi è la presenza di valenti carabinieri.
L'assassinio di Umberto I
Premessa
Dopo Adua, la fine di un secolo e l'inizio di un altro. Finisce l'epoca crispina per lasciare il posto all’era giolittiana, non senza sussulti e drammi: Bava Beccaris, il regicidio di Monza, nuovi sogni coloniali che si materializzeranno dieci anni più tardi nello "scatolone di sabbia" (la definizione fu di Salvemini) della Libia. Tragedie bibliche, come il terremoto di Messina, e piccole grandi calamità che videro sempre i carabinieri in prima linea. E poi antiche piaghe, non ancora debellate, come il brigantaggio che infestò in quegli anni anche la Toscana e, in particolare, la Maremma. Una terra avara, dove la malaria era di casa.
Tra i canneti di quelle plaghe allignava la trista pianta del brigantaggio, favorita spesso dall'arrogante prepotenza dei grandi proprietari terrieri e dei loro ottusi soprastanti. Come quel certo Angelo Del Bono, che per conto del ricco marchese Guglielmi vessava i contadini locali. La roba del padrone, come rammenteranno gli spettatori delI’”Albero degli zoccoli", una realistica opera di Ermanno Olmi su un duro mondo contadino ancora vivo agli inizi del secolo, era più sacra dell'ostia consacrata.
L'Italia difficile della fine del secolo
Gli ultimi anni dell'Ottocento portarono una serie di gravissimi problemi: il brigantaggio in Maremma, i disordini sociali e gli attentati degli anarchici. Mentre i carabinieri…
Fu terribile, per esempio. il destino riservato al brigante Vincenzo Pastorini, che aveva provato a idicolizzarlo quando Domenico era sfuggito in mutande a una pattuglia dei carabinieri. Pastorini fu ucciso in un duello sull'aia, fulminato dalla doppietta di Tiburzi. Una palla in testa e una al cuore si era beccato mentre dormiva Basilietto (Giuseppe Basili), perché rapinava i mercanti senza l'autorizzazione dei capo. Anche un capraio di Terracina che rubava spacciandosi per Domenichino fu raggiunto dalla sua vendetta.
CARTA BIANCA A GIACHERI. Il governo non poteva tollerare le scorribande di quella primula rossa e fu deciso di inviare sul posto qualcuno che fosse in grado di mettergli le mani addosso. L'incarico toccò, ancora una volta, a un piemontese. Baffoni neri alla Francesco Giuseppe (il longevo imperatore d'Austria), testa alla Yul Brinner, sguardo severo e duro, il capitano Michele Giacheri si era fatto le ossa in Calabria, laureandosi con la distruzione a Milano (1884) della famigerata "compagnia della teppa". Dopo di che aveva mietuto successi nel triennio 1890?92 tra Formia e Gaeta catturando briganti di ogni taglia. Nato a Murazzano (presso Mondovi), la sua famiglia discendeva dai conti De Albertis de Wilneuve che avevano dato alla patria uomini di lettere ed ammiragli.
Quando Giacheri arrivò a Grosseto correva la voce che il brigante fosse morto. "Ella viene a catturare una leggenda", gli disse qualcuno. Giacheri non si fece fuorviare da queste illazioni e cominciò a percorrere instancabilmente in lungo e largo il regno del brigante, spacciandosi per un topografo francese. Domenichino godeva di finanziamenti piuttosto stabili, derivanti dal "pizzo" che pretendeva da tutti i possidenti locali in cambio della protezione dalle incursioni di piccoli delinquenti, e disponeva di una fittissima rete di complici, molti dei quali contadini, sempre pronti a tenerlo informato di eventuali indagini in corso sul suo conto o di tranelli preparati contro di lui. Perfino una taglia di ben 10.000 lire (una somma enorme per quei tempi) non aveva sortito alcun effetto: il bandito si spostava prudentemente da un luogo all'altro per evitare di essere localizzato e rafforzava il suo dominio di terrore, ammazzando le spie che lo minacciavano.
La pattuglia stava per tornare alla base quando un confidente rivelò al carabiniere Ciro Cavallini che in uno dei casolari dei dintorni il brigante avrebbe dovuto passare la notte. Sotto una pioggia divenuta torrenziale, molti coloni vennero tirati giù dal letto mezzi assonnati. Niente di niente, forse ancora una volta l'inafferrabile Tiburzi l'aveva fatta franca.
FINO ALL'ULTIMO BANDITO. Sono le tre e trenta quando davanti alla casa colonica Le Forane si presentano i carabinieri. I cani abbaiano e due figure compaiono alla porta. "Chi va là?". Partono due fucilate, i militi rispondono e il vecchio brigante viene colpito a morte (24 ottobre 1896). Anche a lui é riservata la tradizionale macabra foto, vestito di tutto punto, con il fucile nella mano irrigidita, mentre ai componenti della pattuglia viene conferita la medaglia d'argento.
Una foto ritrae questi valorosi dopo la cerimonia. Appaiono rilassati, qualcuno con l'ombra impalpabile di un sorriso, accuratamente nascosta dai baffi, due addirittura con il berretto da fatica sbarazzinamente portato sulle ventitré.
Uno di loro si lascia andare a un commento davanti al cadavere del brigante, eliminato nell'anniversario delle nozze del re: "Questo è il nostro dono di nozze alla principessa Elena: il regno di Tiburzi". "Non è mica completo" (ancora sei accoliti sono in libertà). "Ebbene noi lo completeremo".
Il brigante Musolino
Quando la televisione non c'era ed il tempo delle feste era finito, qual era il passatempo dei bisnonni? Oltre a quelli più ovvi, c'erano la lettura per i più colti e le leggende popolari per gli analfabeti. Naturalmente anche allora la cronaca di fatti sensazionali la faceva da padrona, e Giuseppe Musolino era un brigante con un senso dell'immagine piuttosto sviluppato. Le sue vicende furono seguite con morbosa passione dalla stampa nazionale e dai cantastorie popolari, creandogli un alone di leggenda e di romanticismo che nulla aveva a che vedere con la realtà,
Viene arrestato sei mesi più tardi e condannato per tentato omicidio alla pesante pena di ventun anni.. Dalla gabbia, Musolino grida: "Ho ventun anni e sono stato condannato a ventuno! ma uscirò prima per vendicarmi". Due anni dopo (1899) mantiene la promessa e si trasforma in un ciclone omicida. Ferisce un accusatore e ne ammazza la moglie, poi fa saltare con la dinamite la casa di un altro ed infine ammazza un giovane che sta in procinto di arruolarsi nell'Arma. Per tre anni semina il terrore e nessuno riesce a catturarlo, nemmeno con l'aiuto di una taglia. E’ ormai un mito che riesce a beffare a piacimento la legge.
Solo nella primavera del 1902 l'aria per il bandito diventa irrespirabile perfino in Aspromonte e inizia così una lunga marcia per la penisola che si conclude nel paese di Acqualagna (Urbino) dove, pur essendo travestito da contadino, perde la testa davanti a due carabinieri in normale giro di pattuglia. Tenta di fuggire, e in questo modo si tradisce. I carabinieri gli intimano l’altolà e si gettano all'inseguimento. Musolino è più veloce di loro e sta per dileguarsi quando inciampa in un fil di ferro che tiene i pali di una vigna. La leggenda popolare gli metterà in bocca la rabbiosa esclamazione "Chillu filo" mentre viene immobilizzato. Portato in caserma dice al brigadiere Mattei (il padre del futuro Enrico Mattei, presidente dell'ENI) di essere un contadino di Pesaro, ma l'accento calabrese lo tradisce.
Davanti alla Corte d'assise di Lucca, Musolino pronunzia un'autodifesa apparentemente sconnessa, ma a effetto per il pubblico popolare: "Se mi assolveste, il popolo sarà contento della mia libertà. Se mi condannaste, fareste una seconda ingiustizia come pigliare un altro Cristo e metterlo nel tempio. Eppoi, vedete, io non sono calabrese, ma di sangue nobile di un principe di Francia. Chi condannate? Un cadavere, perché io posso avere cinque o sei mesi di vita al più". Parole destinate a restare celebri, ma che non gli evitano l'ergastolo. Trascorrerà in carcere 54 anni. Graziato nel 1946, passerà i restanti 10 anni della sua vita come ospite del manicomio di Reggio Calabria.
Per i carabinieri non è però finita. Come in un serial di secondo ordine, spunta nel Salernitano "il nuovo Musolino", al secolo Francesco Parisi. Bisognerà, nel 1907, intercettare l'amante del bandito con i soldi di un ricatto per localizzare il malvivente e finirlo al termine di una movimentata e furiosa sparatoria nei boschi.
Gli anarchici contro il Re
Se il brigantaggio continuava ad infestare le campagne, la situazione politica e sociale del Paese non era delle migliori. La caduta di Crispi in seguito alla sconfitta coloniale di Adua (1895) aveva lasciato un vuoto politico che il re Umberto I si era limitato a coprire proponendo il generale Ricotti alla Presidenza del consiglio. Il generale si rese conto da solo di non essere la persona adatta. Venne così richiamato un conservatore, il marchese di Rudinì, un uomo di buon senso, che chiuse con misure di pacificazione i moti sociali dei Fasci Siciliani, ma che mancava di una visione di insieme per affrontare in profondità i problemi del Paese.
La grave situazione interna è ben riassunta da un discorso pronunciato dal grande statista Giovanni Giolitti nel 1899: "In Italia, Paese di salari bassissimi, i generi di prima necessità sono tassati più che in qualsiasi altro Paese del mondo; il complesso delle imposte è giunto a tale altezza da costituire talora una vera confisca della proprietà; le imposte colpiscono più gravemente i poveri che i ricchi; ... la giustizia ... è lenta, costosissima e senza sufficienti garanzie; ... abbiamo un vergognoso primato nella delinquenza comune; l'istruzione elementare è insufficiente, la secondaria e l'universitaria così organizzate da costituire vere fabbriche di spostati... E’ urgente che il governo ed i partiti costituzionali si persuadano che il Paese non presta più fede alcuna alle promesse, e che solamente con un'energica azione, con un radicale mutamento d'indirizzo, si può riacquistare la fiducia delle popolazioni".
“LO SAPRETE DOMANI”. In Italia il simbolo negativo, per gli anarchici, è senza dubbio il re. Sono passati quasi venti anni dal fallito attentato di Passanante e la sera del 20 aprile 1897 il fabbro ferraio Pietro Acciarito saluta per l'ultima volta il padre. "Addio, non ci rivedremo più”. “Dove vai", gli chiede allarmato il padre, "Non ve lo posso dire".
'”In America? in Francia? o ti vai a uccidere?". “Padre, non domandatemi altro: lo saprete domani". Sempre più inquieto il padre, da buon suddito (è nato lo stesso giorno del re e ha chiamato Vittorio e Pietro Umberto i suoi figli), decide di andare al commissariato. "Signor commissario, l'ho sentito troppe volte bofonchiare di strane cose, di uccidere un pezzo grosso, temo che commetta qualche sproposito". "Non vi preoccupate avvertiremo chi di dovere".
E in effetti il commissario diligente inoltra rapporto alla questura, ma non fa i conti con la burocrazia: il documento resta fermo da qualche parte e nessuno avvisa i carabinieri.
La mattina del 22 aprile Umberto I esce dal Quirinale per andare all'ippodromo delle Capannelle per assistere al Derby Reale, dotato dal sovrano di un monte premi di 24.000 lire. Ci va senza scorta (forse non vuole dare rilievo a questa visita) e su una carrozza aperta, una elegante “vittoria” (dal nome della regina del Regno Unito).
Acciarito è appostato nei pressi di Ponte Lungo, il pugnale avvolto in un panno rosso, e quando vede la leggera carrozza senza scorta sale di slancio sul predellino. Il pugnale si leva, il re evita il colpo. La lama resta inerte nel mantice della carrozza.
Acciarito si allontana dal luogo con passo tranquillo, ma viene fermato subito. Ai poliziotti l'attentatore spiega: "L'attentato? Non mi piaceva veder dare 24.000 lire ad un cavallo". "Sono gli incerti del mestiere", conclude con filosofica ironia il sovrano, che ancora non sa che il suo destino è comunque segnato.
Nel maggio 1898, dopo l'ennesimo tumulto nel quale sono rimasti uccisi due poliziotti, il generale Fiorenzo Bava Beccaris scatena a Milano la truppa contro la folla. Non si tratta più di baionette e di spari ad altezza d'uomo, si usa direttamente il mortaio ed il cannone, anche caricato a mitraglia, per di più falciando per sbaglio una folla di mendicanti intorno ad un convento. Per quattro giorni gli scontri urbani continuano.
Il re decora solennemente con la gran croce dell'ordine militare di Savoia il generale Bava Beccaris, soprannominato "il macellaio di Milano", un gesto inopportuno, in contrasto con il lutto pubblico.
Quando la sera del 29 luglio 1900 re Umberto entra nel campo sportivo di Monza é protetto da un forte servizio d'ordine, ma la sua sorte è segnata.Bresci si è già disposto ad una decina di metri dal palco reale e attende pazientemente il momento critico in cui il re uscirà in carrozza. Nella confusione le distanze si accorciano e la pistola vomita tre colpi. Umberto muore e i carabinieri a stento riescono a sottrarre Bresci alla furia degli atleti presenti. Senza il loro intervento l'anarchico verrebbe barbaramente massacrato a colpi di mazza.
Dodici anni dopo il successore Vittorio Emanuele III sarà protetto dai corazzieri in un'analoga occasione. Questa volta il luogo dell'agguato è nei pressi di palazzo Salviati, dove Antonio D'Alba esplode due colpi contro la carrozza del re proprio mentre questi si reca a una messa di commemorazione del padre. I carabinieri però notano l'insolito movimento e si stringono intorno alla vettura. Il cavallo di un brigadiere si prende la prima pallottola, mentre la seconda colpisce alla testa il capo della scorta, maggiore Giovanni Lang. Il re viene salvato da un vero e proprio scudo umano.
Il terremoto di Messina
28 dicembre 1908. "Stamani alle 5,21 sugli strumenti dell'Osservatorio Sismografico è incominciata una impressionante, straordinaria registrazione. Le ampiezze dei tracciati sono state così grandi che non sono entrate nei cilindri: misurano oltre 40 centimetri". Dietro questa scientifica registrazione del direttore dell'Osservatorio, padre Alfani, si rivela uno dei più gravi cataclismi naturali che abbiano mai colpito l'Italia.
Alle 5,20 sullo stretto di Messina si ode un boato terrificante, cui segue un terremoto di spaventosa intensità. Intere fronti di edifici come la Palazzata, orgoglio e vanto di Messina, si disintegrano come colpiti da un'onda d'urto nucleare mentre le banchine del porto sono letteralmente inghiottite dal mare. Un vento sovrumano scaraventa lontano come giocattoli di latta interi convogli ferroviari, svellendo dal suolo le rotaie.
Poco dopo onde alte una decina di metri si abbattono come un gigantesco maglio liquido sull'entroterra. Quando la furia delle acque si placa, dalle condutture del gas ormai contorte e dalle case sventrate si leva minaccioso il fuoco devastatore degli incendi. Non pochi superstiti del terremoto di Messina sono folli dal terrore.
Le riceventi dei telegrafi installati a Roma cominciano a ticchettare sinistramente i primi dati dell'immane disastro, in cui si dice che sulle due sponde dello Stretto sono perite almeno 110mila persone. Non c'è nemmeno l'idea, allora, di una protezione civile e naturalmente i primi che si muovono sono i militari.
Un'intera divisione navale su tre corazzate vira a tutta forza dalla Sardegna facendo rotta verso la Sicilia. Il re, con i primi carichi di medicinali, si imbarca su una di esse. Navi delle flotte francese, inglese e russa si lanciano in una corsa di solidarietà. La città viene divisa per settori e cominciano ad affluire dalle legioni vicine e lontane contingenti di carabinieri. E ce n'è davvero bisogno.
Il 3 gennaio il prefetto straordinario proclama lo stato d'assedio perché gli sciacalli sono diventati una vera piaga, talvolta agiscono per bande e sono armati. I tribunali militari, pur cercando di usare una certa clemenza in mancanza di prove certe, non esitano a passare per le armi i delinquenti più feroci.
L'Arma verrà decorata di una medaglia d'oro di benemerenza, appositamente istituita per l'occasione. Il maggiore Carlo Tua ed il vicebrigadiere Mario Realacci se la vedranno appuntare sul petto, una volta passato l'incubo di quelle giornate. Seguono per altri commilitoni 32 medaglie d'argento, 82 di bronzo, 33 menzioni onorevoli e 1.029 encomi solenni.
Un anno dopo, le benemerenze dei Carabinieri Reali anche nel terremoto di Messina verranno solennemente ricordate in occasione del centenario della fondazione dell'Arma e per il varo dei due cacciatorpediniere gemelli Carabiniere e Corazzier
Nuove regole per l'Arma
Talvolta l'immagine dei Carabinieri sembra presentarsi come un monolitico blocco di bronzo pressofuso. Sempre uguali, sempre fedeli, sempre immutabili, tranne qualche dettaglio nelle divise e nell'armamento. Invece, come in ogni organizzazione complessa, l'ambiente esterno influisce moltissimo sulla vita interna dell'istituzione, ma in modo meno visibile perché molti sono i filtri e i livelli decisionali.
All'inizio del secolo, con tutti i mutamenti politici e culturali attraversati, era ormai maturata l'esigenza di un nuovo regolamento che sostituisse le sorpassate normative del 1° maggio 1892. Nelle grandi linee si cercava di salvaguardare i principi del regolamento basilare del 1822.
Tripoli, bel suol d'amore
L'avvento del secondo governo Giolitti nel 1903 aveva aperto una luminosa parentesi di liberalismo dopo i travagliati periodi del governo liberticida del generale Pelloux ed il regicidio di Umberto I. Giolitti aveva capito che lo Stato non poteva essere asservito indefinitamente agli interessi del blocco agrario-industriale nella repressione sanguinosa degli scioperi. E aveva deciso di varare una serie di urgenti riforme sociali tra cui una legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli ed un'ulteriore riforma della pubblica istruzione.
Si conquista la quarta sponda
Per qualche anno l'operazione si sviluppò senza problemi. Il Banco di Roma si assicurò alcune concessioni minerarie diventando in breve il maggior proprietario terriero del Paese con un consistente controllo sui mulini e su parte della pesca delle spugne. I problemi sorsero quando i nazionalisti turchi presero il potere a Istambul e controbilanciarono la presenza italiana con il potere di colossi tedeschi come la Krupp, la Deutsche Bank e la Siemens. L'appalto per i lavori del porto di Tripoli, vinto da una ditta italiana, fu lasciato cadere dal governo turco. L'allarme suonò per tutti gli interessi politici ed economici legati alla Libia, tanto più che vi era il sentore che Francia ed Inghilterra non fossero tanto indifferenti sulla questione libica. Giolitti, che si preparava ad affrontare nuove elezioni di massa, impartì i primi ordini di studiare l'attacco alla Libia nell'estate del 1911. Le condizioni meteorologiche erano favorevoli e buona parte degli ambasciatori stranieri, si trovavano in vacanza. Tuttavia la necessità di agire segretamente e presto impedì la piena preparazione dello strumento militare, nonché una seria analisi della situazione complessiva in Libia.
ALAMARI TRA LE DUNE. Il primo ad arrivare fu l’onnipresente capitano Federico Craveri, autentico globe-trotter dell'Arma, inviato speciale ogni qual volta vi fosse da risolvere un problema spinoso. Questa volta occorreva ristabilire l'ordine a Tripoli e Craveri arruolò subito elementi arabi nella polizia. Nel giro di un giorno le botteghe ed il mercato potevano riaprire, ma occorreva comunque sostituire i cinque preesistenti battaglioni di gendarmeria turca
Come se la guerra non bastasse, anche il colera decise di reclamare le sue vittime e toccò ancora una volta ai carabinieri assistere la popolazione, disinfettare i locali, sgombrare i cadaveri. Le sezioni di guerra dell'Arma erano impegnate in tutte le battaglie difensive ed offensive nella Cirenaica e nella Tripolitania: Henni, Ain Zara, Bir Tobras, Sidi Abdallah.
Ai primi del 1912 dall'Eritrea giunsero 29 zaptié scelti tra gli elementi più affidabili in modo da stabilire contatti più diretti con la popolazione libica. I migliori zaptié diventarono istruttori della Scuola Allievi Zaptié, fondata il 10 febbraio 1912, mentre il 13 marzo la compagnia allievi zaptié assorbì 25 nuovi allievi oltre ai restanti elementi turco-arabi perché compissero un corso integrativo.
Finché non verranno conclusi nel 1915 l'accordo di Acroma e quello di Regima, che stabiliranno una sorta di pace coi senussiti in cambio dello sgombero dell'entroterra della Cirenaica, la storia dei Carabinieri in Libia sarà tessuta di eroiche resistenze in posti abbandonati da Dio e dagli uomini e di vane cacce a guerriglieri che sapevano sfruttare a fondo il deserto. Un'altra pagina poco nota scritta dai militi con il silenzio ed il sacrificio. Ne affronteranno di ben più grandi e laceranti nella Grande Guerra che ormai incombe nefasta sulla prospera Europa.
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La Grande Guerra
Premessa
Ancora oggi, quasi ottant'anni dopo, la terra rende i resti corrosi e quasi privi di senso di un conflitto che nella nostra coscienza collettiva è ormai lontanissimo: elmetti, resti di granate, brandelli di tenace reticolato. Non pochi dei nostri padri lo hanno vissuto da bambini (non a caso molti di loro furono battezzati Vittorio, come celebrazione o come auspicio), quasi tutti i nostri nonni ancora in vita ci sono passati. Quello che per noi è “roba da prima guerra mondiale", per loro è la Grande Guerra.
La prima guerra che diede all'umanità il senso di massa della mostruosità di un conflitto industrializzato (nel quale valeva ormai poco il valore individuale e nulla il codice cavalleresco) ebbe inizio con un attentato terroristico, di cui rimase vittima l'erede al trono dell'Austria-Ungheria, Franz Ferdinand, con sua moglie, in una città anche oggi straziata dalla guerra: Sarajevo. Lo studente bosniaco Gavrilo Princip. anche lui convinto della necessità di cambiare il suo mondo con un gesto esemplare, riuscì a piazzare una rosa di pallottole sulla bianca divisa del principe e sul ricco abito della sua sposa. Fu la campana che suonò per il vecchio impero multinazionale e per tutta un'Europa, convinta dell'inarrestabilità del progresso ma ancora fortemente contadina. Nulla sarà più come prima.
Da una scintilla la catastrofe
L'attentato di Sarajevo fu la causa accidentale che provocò la Prima Guerra Mondiale, un grande massacro che rivoluzionò la carta geografica dell'Europa
Sarajevo fu la scintilla, Gavrilo Princip l'artificiere. I compassati signori in cilindro, marsina e feluca delle cancellerie europee erano impegnati a seguire, con sobria attenzione, gli eccitanti ed intricati sviluppi dell'ennesima crisi locale.
L'espressione "polveriera dei Balcani” è vecchia come le nostre nonne. La Turchia, dopo la rivoluzione modernista dei giovani turchi, aveva capito che solo concedendo l'autonomia ed eventualmente l'indipendenza ai popoli slavi ad essa sottomessi poteva sopravvivere. La Serbia coltivava già allora il grande sogno di essere il faro e la guida dei popoli slavi meridionali. L'Austria si sentiva sul collo il fiato degli irredentismi locali. Con una mossa a sorpresa, Vienna procedette all'annessione della Bosnia-Erzegovina di cui deteneva l'amministrazione, appoggiata senza riserve da Berlino. La Russia, grande protettrice di tutti gli slavi, non digerì l'iniziativa anche se fu costretta a subirla. Francia, Germania e Inghilterra si studiavano con sospetto e intanto si armavano. Londra e Berlino rinforzavano la loro flotta navale, composta di navi con linee stupende, che svolgeranno un ruolo marginale nel conflitto.
Serbia, Bulgaria, Grecia e Montenegro sentivano che l'ora della riscossa contro l'odiato oppressore turco stava arrivando e nel 1912, stretti nella Lega Balcanica, attaccarono e sconfissero i turchi, indeboliti dalla guerra in Libia. Subito dopo, i compagni di strada erano già pronti a prendersi per la gola. Furono i bulgari, inebriati dal successo, a scatenare la seconda guerra balcanica (1913) per imporre la loro volontà a Serbia e Grecia. Gli andò male: intervennero Turchia e Romania e la partita fu vinta dalla Serbia, che ebbe il territorio raddoppiato e il prestigio moltiplicato per mille. Soltanto un'illusione: Belgrado si trovava ormai a fronteggiare direttamente Vienna e la vecchia capitale mitteleuropea non poteva tollerare oltre il processo di disgregazione dell'impero.
L'atmosfera politica internazionale era carica di elettricità: Francia e Germania erano rimaste rivali e la Germania giunse alla graduale convinzione che la Russia volesse una guerra per frenare l'egemonia prussiana. La gigantesca tenaglia franco-russa avrebbe impaurito chiunque: il programma di riarmo pluriennale di Pietroburgo e l'approvazione della ferma triennale in Francia (1913), nonché il riavvicinamento politico tra queste due Potenze, legittimavano le previsioni più fosche.
Alcuni incerti tentativi di mediazione non ebbero effetto e pochi giorni dopo scoppiava la guerra, una piccola guerra locale per mettere a posto quattro slavi arroganti. E invece, come in un mortale Risiko, la Russia decretò la mobilitazione parziale, e Berlino lanciò l'ultimatum (31 luglio) perché fosse sospeso il concentramento di truppe zariste. La Francia rispose a Berlino che avrebbe badato ai suoi interessi in un eventuale conflitto russo-tedesco.
UN RISIKO MORTALE. Il 1° agosto vi furono la mobilitazione simultanea di Francia e Germania e la dichiarazione tedesca di guerra allo zar. Un giorno dopo il Belgio rifiutò la richiesta per il transito di truppe tedesche quando ancora tecnicamente i due Paesi non erano in guerra. Per tutta risposta, il 3 agosto la Germania dichiarò guerra alla Francia scardinando la frontiera belga; il giorno seguente Londra dichiarava guerra alla Germania.






Nessuno aveva capito (e meno degli altri i militari) che l'artiglieria avrebbe dominato la scena, il filo spinato avrebbe avvolto in una ragnatela assurda ogni piano tattico e strategico e che la mitragliatrice, un goffo tubo di stufa senza baionetta, avrebbe detto l'ultima parola.
CALVARIO DI FANGO. All'inizio non sembrò davvero così. L'avanzata tedesca su Parigi fu fulminante, Joffre salvò la Francia in extremis sulla Marna, i generali tedeschi Hindenburg e von Ludendorff schiantarono con sapienti manovre ferroviarie i russi a Tannenberg ed ai laghi Masuri, i russi sfondarono il fronte austriaco a Rava Ruska in Galizia, con 750 treni i tedeschi volarono in soccorso degli austriaci e con una complicatissima e selvaggia battaglia a Lodz bloccarono l'avanzata russa.
Pochissimi generali hanno capito che questa è una guerra d'assedio che si combatte con meno eroismo e con più metodo. I tedeschi mettono a punto la tattica di infiltrare con reparti scelti le prime linee nemiche e poi lanciare attacchi brevi e concentrati, mentre tutti gli altri fino all'arrivo del carro armato (un rozzo schiacciafili spinati) vanno avanti a lanciare reggimenti al massacro.
La nostra entrata in Guerra
In tutto il bailamme del 1914 l'unica grande assente è l'Italia. Visto che l'Austria non si è consultata prima di dare inizio alle ostilità e che soprattutto ha dichiarato guerra mentre la Triplice Alleanza prevedeva l'assistenza reciproca solo in caso di difesa da un attacco, Roma non si ritiene legata da quel patto.
Il Paese è agitato dal dibattito fra interventisti e non interventisti, ma i carabinieri sono all'opera da diverso tempo con discrezione ed efficacia. La Triplice era in crisi da parecchi anni e i carabinieri nelle stazioni venete di confine avevano attivato un discreto servizio d'informazioni. Anche allora erano seguite avidamente le storie di spie bellissime, amanti infide di potenti ambasciatori e gallonati generali, ma la normale realtà dei servizi era molto meno seducente.
I servizi di informazione compivano ogni genere di azione. Ricordate le fughe incredibili attraverso il Muro di Berlino? Ottanta anni fa la cortina di ferro esisteva per gli irredentisti italiani che non volevano servire più sotto l'odiata aquila bicipite, specie, se erano ufficiali dell'imperial-regio esercito come il barone Raimondo Buffa. A risolvere il problema provvide il servizio segreto. Prima un'opportuna convalescenza tolse il barone dal servizio attivo, poi la moglie preparò un pacco di biancheria da spedire. Al ritiro, in luogo sicuro, i carabinieri aprirono la cesta dalla quale uscì l'irredentista.






Il 26 aprile 1915 l'Italia firmò il patto di Londra con il quale si impegnava ad entrare in guerra entro un mese
IL PODGORA MALEDETTO. Ancora una volta le nostre forze armate, in apparenza moderne e potenti, avevano sofferto di due mali piuttosto cronici nella storia militare nazionale: improvvisazione e sottocapitalizzazione. La prima era conseguenza della criminale segretezza con cui erano state condotte le trattative di Londra. Salandra era talmente ansioso di condurre in porto il suo complesso gioco politico che non aveva nemmeno informato il capo di Stato maggiore dell'esercito, in modo che si potessero approntare i piani necessari dopo un così radicale rovesciamento delle alleanze. La seconda derivava dall'inveterata tendenza a fare, come si dice, “le nozze con i fichi secchi", specialmente nel campo militare, salvo poi indignarsi per le spese militari eccessive e flagellarsi alla prima sconfitta.
Il 24 maggio le truppe varcarono solennemente il Piave con l'intento, peraltro logico, di avanzare oltre l'Isonzo puntando su Lubiana e riducendo il pericoloso saliente del Trentino, ma le vere operazioni poterono cominciare soltanto a metà giugno.
La prima offensiva dell'Isonzo si concluse con 1.916 morti, 11.500 feriti, 1.600 tra dispersi e prigionieri con le truppe aggrappate (in condizioni di autentica disperazione) in trincee di fortuna ai bordi dell'altopiano carsico e bersagliate costantemente dal nemico in posizione dominante.
Fu necessaria uni seconda offensiva, sempre con l'obiettivo di prendere i punti chiave della difesa di Gorizia e di allargare le teste di ponte oltre l'Isonzo. A questa seconda azione prese parte il reggimento Carabinieri Reali, al comando del colonnello Antonio Vannugli. Si trattava di una unità pianificata da lungo tempo (1905), costituita di fresco due giorni prima dello scoppio del conflitto, composta dalle compagnie della Legione Allievi e da volontari delle Legioni territoriali di Firenze, Ancona, Palermo, Bari e Napoli, forte di 2.500 uomini e 65 ufficiali. Il morale degli uomini era altissimo, le divise erano i tipici grigioverde da combattimento, quasi identici per tutte le armi e tutti i reparti.
La vigilia del macello
Sono le memorie di un allora giovane tenentino, Franco Mazzarelli, poi divenuto un severo generale, a restituire intatte le sensazioni di quell'unità votata al sacrificio. La missione dei due battaglioni del reggimento è di passare attraverso una breccia aperta con una poderosa offensiva ed entrare per primi a Gorizia in modo da assumere subito il controllo della città. Un compito importante che agli occhi degli uomini è secondo solo alla voglia di affrontare direttamente il nemico.
Il pomeriggio del 6 luglio, con tutti gli ufficiali a rapporto, vengono fuori altri dettagli scoraggianti. Non ci sono quegli articoli di uso corrente come borracce per l’acqua, bombe a mano, pinze tagliafili, maschere antigas. Abituati ad un'organizzazione che funziona, i carabinieri fanno partire il tenentino per il comando di corpo d'armata a Cormons con le richieste. "No, guardate, per voi a breve non è previsto nessun assalto. Dovete invece andare in trincea sulla collina del Podgora ed aspettare un po'. I materiali? Per ora non c'è fretta. Ve li facciamo arrivare appena possibile". Non è che l'organizzazione non esista, ha soltanto regole kafkiane a cui tutti devono rassegnarsi, carabinieri inclusi.








Musi lunghi, ma ancora molta voglia di battersi, i carabinieri raggiungono le posizioni di Lora Podgora di fronte alla famigerata quota 240 e danno il cambio al 36° Fanteria. Le trincee sono in un punto raccapricciante, dominato interamente dal fuoco nemico, e sono ammorbate da un tanfo nauseabondo non solo per gli escrementi, ma anche per i cadaveri insepolti nella terra di nessuno. I militi tengono duro, nonostante tutto, nonostante i turni pesanti, il rancio gelido una volta al giorno e le infezioni intestinali coleriformi. Continuano a scavare sotto il fuoco nemico quei camminamenti protetti di avvicinamento a quota 240 che serviranno per l'assalto finale.
Il 18 luglio arrivano i primi ordini di combattimento in occasione di una dimostrazione per appoggiare un attacco nel settore vicino. Solo allora arrivano 80 pinze tagliafili, poche vecchie maschere antigas e 50 bombe a mano, quanto basta appena per una compagnia. Comunque le azioni di danneggiamento ai reticolati hanno un discreto successo e comportano perdite in numero limitato. Il 19 dal comando di brigata Pistoia arriva l'ordine di assaltare per le 11 la quota 240. Alle 10,20 un batteria di cannoni a tiro rapido da 75 millimetri comincia a battere i nidi di mitragliatrici avversari. Mancano pochi minuti al macello.
COME ALLA PARATA. Alle 11 precise il colonnello Vannugli comanda: "Avanti per l'assalto!". Segue l'ordine "Alla baionetta" e l'indimenticabile "Savoia!" al momento di uscire dalle trincee. Chi ha visto il film Uomini contro o ha letto Un anno sull'Altopiano di Emilio Lussu può facilmente visualizzare la scena.
Secondo gli ordini, l'assalto del reggimento Carabinieri Reali deve essere compiuto alla baionetta e senza sparare. Nemmeno un colpo parte da quegli uomini che continuano a manovrare sotto la falce impazzita della morte come se fossero in piazzi d'armi e che cercano di proteggere i loro ufficiali. Gli austriaci non solo riescono a bloccare col fuoco l'avanzata di quei valorosi, ma piazzano una mitragliatrice quasi alle spille degli attaccanti con effetti devastanti. Gli italiani non si sbandano e non arretrano di un pollice. Perfino gli austriaci sono colti dal fascino di quella scena di strage irreale. Alla fine, decimati ma non fiaccati, i militi ricevono l'ordine di fermarsi e riorganizzarsi per respingere un contrassalto, mentre si progetta di compiere un altro sforzo con altra fanteria. Per fortuna ci si rende conto che senza artiglieria sarebbe un sacrificio vario. Suona la ritirata. Quella maledetta quota non verrà mai espugnata all'assalto in tutta la guerra.
Sui sopravvissuti e sui cadaveri fioccano gli elogi. Arrivano tempestivi in ordine gerarchico quelli dei comandanti di brigata, divisione, corpo d'armata, armata e qualche anno più tardi quelli delle storie ufficiali. Arriveranno anche le medaglie: 9 d'argento, 33 di bronzo, 14 croci di guerra. Povere cose rispetto alle vite sprecate nel grande carnaio.
Finalmente a Gorizia!
La guerra continua ed i carabinieri sono dappertutto per assicurare tutta una somma di servizi poco visibili, ma utilissimi: posti di sicurezza, piantoni fissi, vedette stabili di contraerea, ronde negli abitati, perlustrazioni sulle vie ordinarie e linee di tappa, vigilanza sulla realizzazione di opere militari, servizio di polizia sui treni, corrieri postali, prevenzione e repressione dello spionaggio, servizio informazioni, interrogatorio dei prigionieri, scorte valori, servizio di scorta alle autorità, servizio delle tradotte, scorte ai carreggi, salvacondotti e permessi, repressione della diserzione, vigilanza degli stabilimenti militari e repressione di reati ai danni dell'amministrazione.
I reparti vengono resi più agili e numerosi. Il glorioso reggimento Carabinieri Reali viene trasformato in tre battaglioni autonomi e tre compagnie autonome vengono create in aggiunta. Quando gli austriaci scatenano la Strafexpedition (spedizione punitiva) nel maggio 1916, i reparti autonomi vengono rapidamente riconfigurati in 39 plotoni. Il 16 giugno scatta la controffensiva e si aggiungono altri 24 plotoni di carabinieri.
Gli austriaci sono esausti e la loro logistica è in crisi, da maggio si combatte quasi senza interruzione. Il fronte comincia a scricchiolare: quell'Isonzo che sembrava invalicabile viene superato di slancio dalla marea grigioverde; quota 240, la Hamburger Hill dei Carabinieri, si arrende; chi ancora resiste accanitamente nelle caverne è spazzato dalle granate a mano e dai lanciafiamme.
Mentre l'Arma mobilitata ha triplicato i suoi effettivi nell'ottobre 1917, quella territoriale comincia con la legione provvisoria autonoma Carabinieri Reali ad espandere nei territori appena liberati la sua rete di controllo. Il comando si trova ad Udine, mentre i comandi delle due Divisioni sono ad Udine e Gorizia. La rete è infittita da una Divisione della legione di Verona dislocata nella provincia di Udine.
Prima e dopo Caporetto
Pochi giorni prima che gli austrotedeschi vibrassero la loro mazzata tra Tolmino e Caporetto, si tenne a Villa Vicentina (12 settembre 1917) una grande cerimonia per la consegna di 35 medaglie al valore ai militi dell'Arma, destinata a rinsaldare il morale e ricordare gli eroismi fino ad allora compiuti. Sua Altezza Reale, il Duca d'Aosta, comandante della Terza Armata, pronunciò con orgoglio la chiusa del suo discorso: “La vostra missione è di pace e di guerra. o benemeriti soldati. Pace bellique, voi meritate, o Carabinieri, tutta intera la nostra riconoscenza, la riconoscenza dell'Italia. Bravi”.
Nell'aria aleggiavano ancora le parole di D'Annunzio declamate quattro mesi prima (il 12 giugno) per commemorare il capitano Vittorio Bellipanni, un altro eroe: "E’ l'Arma della fedeltà immobile e dell'abnegazione silenziosa; l'Arma che nel folto della battaglia e al di qua della battaglia, nella trincea e nella strada, nella città distrutta e nel camminamento sconvolto, e nel pericolo durevole, dà ogni giorno uguali prove di valore, tanto più gloriosi quanto più avara le è la gloria ......”
Guerra lampo? Non ancora. ma tra i gagliardi fanti bavaresi che scardinavano le deboli difese italiane vi era un tenente prussiano, un certo Erwin Rommel, che non dimenticherà la lezione appresa tra le nebbiose alture di Caporetto.
I nostri furono presi in contropiede, sotto tutti i punti di vista.
Nel giro di cinque giorni gli austro-tedeschi raggiunsero la linea del Tagliamento, vanificando gli sforzi di due anni di guerra e tante sanguinose battaglie. Il generale tedesco von Berrer fu audace da entrare a Udine a bordo della sua automobile: pagò cara la sua arroganza perché due carabinieri lo centrarono senza nemmeno chiedergli i documenti.
LA FEDELISSIMA. Fu in quei giorni bui e frenetici, mentre le truppe della Seconda Armata rifluivano penosamente verso i pochi ponti rimasti sul Tagliamento, che la Fedelissima si rivelò determinante. Soltanto un'arma d'élite, all’'obbedienza quasi gesuitica, poteva restituire una parvenza di ordine a una massa di soldati demoralizzati e fuggiaschi, incalzati dappresso dal nemico vittorioso.
Alla fatica del ripiegamento su tutto il fronte dalle Alpi al mare si aggiunsero amare e meschine polemiche. Cadorna non esitò a diffondere un disonorante comunicato in cui, per scagionarsi come comandante supremo, attribuiva la disfatta alla viltà dei propri soldati. Poi si scatenarono le accuse e i memoriali incrociati fra generali preoccupati soltanto di scaricare le proprie responsabilità: tutto sulla pelle dei poveri fanti.
Non bastava. Cadorna, convinto che fosse necessario un esempio punitivo ordinò sul posto la decimazione dei reparti: una misura disciplinare terribile che si adotta in casi estremi. E quello non era davvero un caso che giustificasse una misura del genere nei confronti di uomini costretti a combattere in condizioni disperate.
Alcuni mesi prima (aprile-maggio 1917) la decimazione era stata spietatamente applicata per reprimere la rivolta di tutto l'esercito francese esasperato dai massacri compiuti sulla sua pelle.
Decimare significa allineare alla meglio il reparto in questione e far percorrere le righe da ufficiali che tirano fuori un soldato ogni dieci a caso. “Tu, fuori. Uno, due, tre .... fuori tu!": in un silenzio di tomba risuonano le voci di morte tra i volti grigi di stanchezza dei soldati disfatti. Molti si incolonnano in silenzio verso una morte infame, qualcuno grida, piange, va condotto a forza, altri pregano.
C'è solo una cupa tristezza, il capo chino sotto la pesante responsabilità di un dovere ferreo e spietato, nei ranghi dei carabinieri ai quali è affidato l'orrendo compito. Un muro invisibile di odio separa i soldati innocenti, colpevoli solo di aver umanamente ceduto, e i militi, colpevoli di incarnare l'estremo senso del dovere anche di fronte ad ordini crudeli.
La scarica del plotone di esecuzione abbatte le vittime di questo rito sacrificale. I reparti hanno lavato un'onta non loro.
Verso la vittoria
Ci vogliono due meridionali e il generoso scatto di reni e d'orgoglio di tutta una nazione per rovesciare la situazione. Tocca al siciliano Vittorio Emanuele Orlando ricucire in fretta come presidente del Consiglio le ferite politiche e psicologiche della sconfitta. Tocca al napoletano di origini spagnole, Armando Diaz, ridare fiducia e conforto ai soldati violentati dalla sconfitta. Finalmente ci si cura di più del benessere fisico e morale dei combattenti. Si creano uffici di propaganda che spiegano alla truppa, in larga parte contadina e poco istruita, perché si combatte, e si impara a usare la truppa con maggiore criterio. In poche settimane la tempra della nazione spezza l'orgoglioso attacco austro-tedesco sul Piave: l'offensiva Radetsky segna l'inizio della fine del secolare e decrepito impero.
Decine di sezioni e plotoni di Carabinieri si distinguono nella tenace resistenza accanto ai loro commilitoni delle altre armi, meritando più volte l'encomio solenne. I marescialli Conrad von Hoetzendorf e Boroevic non credono ai loro occhi: dove sono quegli italiani che erano stati dileggiati come vigliacchi, buoni solo a scappare? Il baldanzoso grido di guerra "Nach Mailland" muore sulle labbra, non rivedranno mai più la Madonnina del duomo di Milano.
Nell'ottobre 1918 tocca finalmente agli italiani montare la loro offensiva, quella finale. A un anno esatto da Caporetto, il Piave viene ripassato dalle truppe italiane. Per tre giorni gli austro-tedeschi resistono con valore e disperazione, ma non c'è niente da fare contro la valanga grigioverde. Il fronte si spezza, i reparti slavi si ammutinano, così come la flotta austriaca a Pola, la cavalleria si apre a ventaglio nelle retrovie indifese. Trento e Trieste sono liberate.
Un contributo non trascurabile è stato dato anche dall'aviazione per la prima volta impiegata in massa nella Grande Guerra. Anche lì vi è la presenza di valenti carabinieri.
per approfondimenti Arma Carabinieri


















































CORPO DI POLIZIA MUNICIPALE DI BARI

Bari, 27.05.2008
Comunicato Stampa

Oggi presso il Comando Centrale della Polizia Municipale di Bari, si è svolta la cerimonia di premiazione del personale che ha partecipato alla gara di tiro con pistola “ 3° Trofeo San Nicola “, organizzato dal Comando di Polizia Municipale di Bari.
La gara si è svolta sabato 24 e domenica 25 maggio presso la sede del Tiro a Segno Nazionale di Bari, ed ha visto partecipare 72 tiratori, tra Ufficiali e Agenti della Polizia Municipale.
Alla cerimonia ha presenziato il Comandante del Corpo Col. Stefano Donati, che ha consegnato i premi ai vincitori delle varie specialità unitamente al Presidente del Tiro a Segno Nazionale sig. Perta Giovanni, presente alla cerimonia con tutti i suoi collaboratori.
La gara oltre che motivo di divertimento e di competizione fra colleghi ha avuto lo scopo di esercitare il personale all’uso dell’arma in dotazione.
La gara è stata perfettamente organizzata grazie alla professionalità e alla disponibilità dell’istruttore di tiro operativo della Polizia Municipale, Carlucci Enrico e del suo collaboratore Manzari Lorenzo.
La gara si è sviluppata su quattro serie da 5 colpi su sagoma posizionata ad una distanza di 25 metri.
Al termine della difficile gara tutti i partecipanti sono stati all’altezza della situazione, ed hanno dimostrato di saper usare l’arma in dotazione in tutta sicurezza, ottenendo anche risultati di tutto rispetto.
La graduatoria è stata divisa in tre categorie, uomini, donne, e personale civile.
I primi classificati delle tre categorie sono stati per la categoria uomini, l’agente di Polizia Municipale Petrelli Nicola, in servizio di Pronto Intervento presso il Comando del quartiere S. Paolo, per la categoria donne, l’agente di Polizia Municipale Cazzorla Annamaria, in servizio presso la squadra di Polizia Giudiziaria e per il personale civile il dirigente Dr. Partipilo Giancarlo.

N.B. con la presente si invia la foto del 1° classificato categoria uomini, Agente di Polizia Municipale Petrelli Nicola.

lunedì 26 maggio 2008

COMUNICATO STAMPA DEL COMANDO PROV. DEI VIGLI DEI FUOCO DI BARI

I Cavalieri del Fuoco...omaggiano il commilitone, caduto durante il servizio.
Angelo Jacobellis, eroe di Grumo Appula.
Domenica 25 maggio nel Comune di Grumo Appula è stata intitolata una nuova strada alla memoria del Vigile del Fuoco Angelo Jacobellis caduto in servizio il 30/10/1988 a seguito di un intervento di soccorso presso l’aeroporto di Brindisi per assistenza all’atterraggio di un aereo passeggeri di linea.
Jacobellis decedeva lasciando la moglie con un figlio piccolo ed un altro in arrivo, tutti presenti alla cerimonia dell’intitolazione su invito del Comandante Provinciale Giovanni Micunco..
Sul posto dell’inaugurazione della strada è stata celebrata anche una funzione religiosa in memoria del vigile Jacobellis. Dopo i saluti di rito delle autorità e la commemorazione del Vigile caduto in servizio, da parte di un picchetto formato dai colleghi presenti sul posto con i labari e la bandiera del Comando Provinciale di Bari, sono stati gli stessi Vigili del Fuoco ad affiggere simbolicamente la targa all’inizio della strada.

MULTINATIONAL TASK FORCE WEST

COMUNICATO STAMPA-Cap. Domenico Occhinegro

Donazione di materiale da costruzione alla comunità serba di Brestovik
(Pec/ Peje) Brestovik – 26 maggio 2008 Continua l’attività di cooperazione civile e militare nel contesto dell’operazione Joint Enterprise in Kosovo. Il Generale di Brigata Agostino Biancafarina, comandante della multinational task force west, ha consegnato, sabato 24 maggio, al capo villaggio della comunità serba di Brestovik, un villaggio a 20 Km da Pec/Peje la cui attività predominante è l’agricoltura, materiale edile per la realizzazione di un ricovero per macchine agricole.
Il team Project della CIMIC ha preparato il progetto per la messa in opera del ricovero che sarà realizzato con il concorso degli abitanti del villaggio.
L’impegno economico del progetto è stato di circa 3000 euro i materiali sono stati consegnati in loco.