Ordini Cavallereschi Crucesignati

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mercoledì 9 gennaio 2019

AMICI, VI PRESENTO LA DOTTORESSA ELISABETTA SALVATI, PERSONA DI GRANDE INTELLETTO E UMANITA'.


Gentili lettori, Vi presento la Dott.ssa Elisabetta Salvati che ho conosciuto in un contesto culturale a Roma. La Salvati è una mente intelligente, poliglotta, colta, di un sentimento pulito, giocosamente infantile ovvero innocente nei contesti di rapportarsi con gli altri…faceta, allegra, coraggiosa mettendoci la propria faccia. Scrittrice in erba (sta pubblicando in questi giorni la sua prima raccolta di poesie e una fiaba iniziatica “La Notte di Sophia” con la Pedrazzi Editore), attrice amatoriale da diversi anni per talento e grande passione, vince il primo premio come Migliore Attrice alla Rassegna di Corti Teatrali del Teatro allo Scalo di Roma nel 2009. Laureata in Economia e Commercio, svolge la sua attività quotidiana in una rinomata azienda Italiana del settore delle Telecomunicazioni in veste di “professional” dell’innovazione.
Insomma una donna eclettica, scherzosa e timida, per alcuni versi, che nella Sua creatività dirompente nasconde una rettitudine di un ordine composto e coerente. Mi ha promesso di collaborare al mio blog International, con la speranza che possa intrattenere anche Voi, amici miei, che mi leggete. Vi lascio dunque alle Sue riflessioni spontaneee veritiere… un abbraccio a tutti. Pietro Leggiamola, ora. 
“Devi essere gentile … e avere coraggio …”
Queste le parole testamento della mamma di Cenerentola, nell’ultima versione sugli schermi diretta da Kenneth Branagh. E sono anche una regola iniziatica. Per il discepolo che vuole salire sulla scala della conoscenza e del perfezionamento di sé, sono consigli utilissimi e strumenti imprescindibili. La gentilezza e il coraggio sono virtù potenti. Inducono a non lasciar nulla di intentato, continuando a sorridere … a gli altri, alla sorte, a sé stessi. L’amabilità più dell’amore (parola molto abusata e poco praticata) può fare miracoli. Perché è forse la qualità più difficile da custodire.
Con l’andare del tempo le delusioni, le fatiche, i fallimenti attenuano a volte il “lume della ragione”, cosi la spinta si allenta, la meta si offusca. Le domande sbiadiscono, le risposte tacciono. A tratti resta il buio, il timore dell’inconoscibile. Ma Cenerentola ricorda a tutti che siamo fatti di cenere, e che la cenere è, essenzialmente, “trasformazione”. Perché è questo che siamo: dei “Trasformandi”. Esseri che crescono, per diventare “Umani”.
Il fuoco presso il quale giace la fanciulla la riscalda nelle lunghe notti d’inverno, la custodisce, ammorbidisce i rancori e le delusioni, fa evaporare la rabbia e la paura, purifica le intenzioni: solo quello più vere ed autentiche rimangono, solo l’oro puro resiste al calore eccessivo della fiamma. Cosi giorno dopo giorno Cenerentola non si schermisce di fronte alle prove della vita ma appunto, con gentilezza e coraggio, agisce e non reagisce, confrontandosi con gli eventi: da una scala a chiocciola (in alto verso i cieli…) sulla piccola mansarda dove l’hanno confinata la matrigna e le sorellastre, negli atri del castello dove danza abbracciata ad un principe (non “il” principe ma uno dei tanti, perché il principe azzurro esiste solo nelle favole ma un principe fra i tanti è disponibile per ognuno desideroso di sposare la propria interiorità), nel rientro precipitoso a casa quando cambia nuovamente sembianze e ridiventa più e più volte “cenere”, fino alla trasformazione finale.
Perché se è vero che i percorsi bui a tratti tempestosi minano via via la nostra energia primaria, è anche vero che ad ogni ostacolo la rinnovano. E cosi di passo in passo, Cenerentola si avvia a trasmutarsi da “cenerella” in principessa del ballo, indossando un abito cangiante dal rosa all’azzurro cielo, segno appunto della tenerezza unita al coraggio, in vista di una promessa elevazione spirituale. Dove la scarpetta di cristallo simboleggia la purezza, la trasparenza, il candore originario di un’anima che ripercorre la via del ritorno, in ascolto del fanciullo interiore. Così la danza segna il ritmo della vita, delle stagioni e del cosmo tutto intero che si allea (in basso come in alto) con chi intraprende il cammino di verità. Il matrimonio, con veste bianca luminosa e tersa segna infine l’unione sacra, mistica e spirituale della persona con la propria anima, dell’anima con il sé interiore, della terra con il cielo; sotto il segno del Re, il quale suggella il patto di fronte al popolo, testimone e destinatario dei segni di verità. È così che ci si “ri-sposa” con sé stessi, (non con l’immagine di sé, menzognera e ingannatrice che ogni buon cavaliere deve sfidare e superare) alla conquista della propria essenza.
E vissero tutti felici e contenti. Tutti quelli che osano procedere lungo il sentiero periglioso e straordinario della crescita interiore, in ascolto di una voce sapiente, desiderosi di redenzione, e affrontano con coraggio il confronto con i propri fantasmi e sfidano le fiere belve (le stesse di Dante nel mezzo del Cammin …) dietro i crocicchi della vita, e custodiscono gelosamente il proprio cuore al riparo da imbrogli e maldicenze (matrigna e sorellastre) per restare amabilmente intatti nella tenerezza e nell’apertura verso l’altro, tutti questi anche solo per un attimo assaporeranno prima o poi il gusto della “felicità per sempre”.
“Il Padre” … sublime, toccante, liberatorio…
FatihAkin, turco di seconda generazione, nato ad Amburgo, è il regista ispirato de “Il Padre”, un’opera sublime, autentica, inuna parola: bella!
Laddove l’etica sposa l’estetica, il miracolo si compie. Il glamour di Zeffirelli, la poesia di Visconti, l’autenticità di Pasolini, si fondono insieme con un tocco di spleen mediorientale, e una vicenda tragica e sorprendentemente attuale diventa arte pura, puro godimento per lo spettatore.
TaharRahim, giovane attore di origine algerina, dona spessore e tenerezza al suo personaggio con la sola magia dello sguardo. Reso muto da una ferita mortale, dalla quale viene salvato proprio dal suo carnefice, il protagonistavuole ritrovare a tutti i costi le figlie amate, disperse dalla guerra turca contro gli Armeni cristiani alle soglie della prima guerra mondiale. E cosi percorre migliaia di chilometri a piedi e attraversa oceani e continenti. Senza mai perdere la dignità, la fede, la speranza.
Nazareth, il destino in un nome. Il “Padre” è un artigiano, sposato ad una donna gentile e garbata che canta la sera, prima di addormentarsi, come una preghiera di ringraziamento. Due figlie amatissime, molto legate ai genitori come nelle famiglie di una volta. Una fede cristiana semplice ma tenace, come quella dei bambini quando si confessano. Una vita ricca di amore per l’esistenza stessa, con la gioia nel cuore di chi non ha niente ma ha trovato tutto. Poi la guerra, la crudeltà, il martirio. E l’incontro con un “buon ladrone” che gli salva la vita dicendogli “perdonami”. E la speranza ritorna.
Le immagini scorrono chiare, con il ritmo dei pensieri e degli umori di chi attraversa il deserto con poca acqua e tanto ardore ad ogni passo. Pochi gesti, semplici ma intensi toccano il cuore e la mente dello spettatore che vive come un thriller dell’anima questa caccia al tesoro dei sentimenti e dei ricordi.
E Nazareth ci insegna ad aspettare, sperare, amare. Anche quando tutto sembra perduto, lui non si arrende. Perché la fiamma che lo abita è sempre viva, accesa, audace. I grandi silenzi, il vento del deserto, le dune capricciose, i sentieri perduti conducono là dove una umanità intera si incontra e si scontra,in fondo al cuore, come in un grande gioco che sempre si rinnova. Ma il lume dell’amore non vacilla. Trasforma l’intensità dello sguardo, il calore degli abbracci, la piega di una guancia che dice addio al fratello amato e riprende il cammino. Fino alla fine.
Fino davanti alla tomba di una figlia perduta ma mai dimenticata. Fino al sorriso della sorella gemella che finalmente stretta al Padre lo accompagna verso la sua nuova vita.
La bellezza non ha confini. Oltre gli uomini, i sogni, la storia, le epoche, le filosofie, gli stili e i modus vivendi; oltre l’immaginazione, perfino oltre l’inimmaginabile, vi sarà sempre un occhio benevolo, una luce sapiente, un battito di ciglio per segnare l’inizio di un nuovo giorno, sotto l’egida della meraviglia.
Perché bellezza è meravigliarsi. Del Creato, di sé stessi, dell’alto e del basso, del micro e del macro, del nulla e del tutto. Come una preghiera che scorre nelle vene, bellezza è tutto quanto ci aspetta e tutto quanto speriamo, quando non cessiamo di guardare il mondo con occhi innocenti, cuore docile, mente leggera, e passo svelto.
“Il Padre” è un film bello perché vero oltre che reale, e narra dell’eterno dell’uomo, la cerca di sé, del proprio nucleo, di una comunione da ripristinare per ritrovare quella purezza d’animo che sola rende agile il vivere. Ed è attuale, vicino a tutti noi anche se narra di terre sconfinate nello spazio e nella memoria. “Il Padre” ci accompagna, sui passi di ogni giorno, nella nostra lotta quotidiana per sbarcare il lunario e soprattutto per non perdere il senno. E il senso. Della bontà come della cattiveria. E indica la Via. Attraverso la fedeltà a sé stessi, a tutto quanto ci è più caro al mondo, fino a guardare negli occhi quel “padre Altro” che ci attende fin dagli inizi del mondo.
Downton Abbey
Il soggetto è grandioso. Una villa vittoriana a cavallo della prima guerra mondiale. Lord, Milady e parenti vari che si susseguono a custodia dell’onore, degli usi e costumi e soprattutto dell’eredità. Una sequela di domestici, lacchè e maggiordomi che lavorano impettiti e borbottano nei sotto scala.
Insomma un mondo a cavallo tra il fantastico e il quotidiano (anche nostro), dove ogni personaggio è messo sapientemente in luce e ritrae un aspetto dell’umanità di un tempo, di oggi e di sempre. Una regia da maestri, attori eccellenti, una sceneggiatura sofisticata. Lo stile e l’eleganza negli arredi e nei costumi che nulla hanno da invidiare al miglior film di Visconti, e soprattutto un arguzia tutta British che ben sottolinea l’abilità eloquente del dire poco e del sotto intendere molto.
Maggie Smith, la capostipite della dinastia ovvero Lady Violet, è superba e suprema. Con agile leggiadria volteggia tra nobiltà ed astuzia, eleganza e vigore, aristocratico distacco e forza persuasiva o dissuasiva a seconda della bisogna.
I personaggi ci parlano di un piccolo mondo antico che travalica nel moderno e sconfina nei secoli a venire  perché i moti, i desideri, i gesti umani sono simili nelle intenzioni se non nella forma.
La fiction è di altissima qualità, e per questo forse da noi non ha avuto un grandissimo successo. All’estero ha ottenuto una pletora di premiazioni e riconoscimenti a non finire, e a garanzia di un genere da teatro shakespeariano sempre verde. 
Gli echi di una signorilità, ormai perduta ai nostri giorni, risuonano ad ogni battuta, ogni gesto, ogni azione, ogni ciak. E lo charme di uno spettacolo fuori dal tempo ci segue come una melodia che non ci abbandona mai.
Rimane così nel cuore la nostalgia di sentimenti più puri, idee genuine ed altruiste, solidarietà umana al di là del censo e del consenso. Rimane come un velo, che custodisce un passato prezioso, un tesoro che lo Scriba sa far fruttare anche nel presente. Rimane la visione di una vita diversa, un’espressione di sé densa e profonda, la conquista di un’identità solenne, un presente più alto da scalare, un’amicizia fidata da proteggere, un passo solerte da rallegrare, una carrozza di sogni in erba, un cammino tempestato di lumi che non svaniranno a mezzanotte.
Cracovia, monamour…
Cracovia mi è rimasta nel cuore. Non me l’aspettavo. La città mi ha accolto, sedotto, baciato. Ne serbo più di un ricordo, quasi un senso di appartenenza, come un ritorno “a casa”. Come se la città mi avesse adottato. Come quando ho scoperto Parigi. Cracovia è un proprio un bijoux.
La gente è viva, la città vitale ma silenziosa, pacifica, armoniosa. Ogni tanto qualche nota di Chopin riecheggia nell’aria e nell’immaginazione. Una chiesetta nella grande piazza del Mercato organizza eventi serali e una famosa accademia di musica esibisce la propria passione e la propria fedeltà al musico natio.
Cracovia ti accoglie. Straniero, turista o curioso, la città si dipana tra viale alberati e viuzze tortuose, palazzi dallo stile asburgico a dimore che ricordano un lontano liberty. Le chiese poi sono grandiosamente decorate, grazie a un barocco imponente e allusivo: Dio è onnipresente.
La fede della gente comune è commovente. L’adorazione di sabato sera nella chiesa principale del centro dedicata all’Immacolata raccoglie orde di pellegrini e di locali.
Di fuori le carrozze elegantemente addobbate con i cavalli bardati e i vetturini vestiti d’epoca attendono placide gli avventori di passaggio, formando lunghe code variopinte intorno alla piazza del Mercato.
Il popolo polacco è coraggioso, tenace, mite. Ha subito invasioni ed espropriazioni di tutti i tipi lungo secoli di dominazioni germaniche e di orrori a cavallo tra le due grandi guerre. Poi la dittatura con le violenze psicologiche, l’ottusità, l’annientamento di un’identità personale e comunitaria.
Ma i polacchi sorridono. Alla vita, al futuro, al ricordo vivo e vegeto di San Giovanni Paolo II che tanto ha amato la sua terra, tanto ha lottato per la libertà dei popoli, tano ha pregato per la pace universale.
La devozione alla Madonna Nera è diffusa quanto quella a Gesù Cristo Misericordioso. Raffigurazioni pittoriche di grande bellezza e intensità campeggiano in ogni angolo sacro cosi come i ritratti e le gigantografie dedicate a GPII.
La Polonia è un barlume di fede, speranza e carità in seno ad un occidente martoriato dall’incredulità e dal cinismo.
Cracovia mi ha aperto gli occhi. E ho ritrovato quello sguardo da bambina che ridona vita a tutte le cose. E mi sono persa lungo i fianchi della Vistula, sull’orizzonte fra terra e cielo, nella fulgida luce del giorno, tra un calpestio sordo di uno zoccolo e la risata accesa di un bambino. E ho percepito il pulsare del tempo, dentro
nelle vene, e lo spazio che avvolge e sostiene il respiro, e la vetta che si innalza lungo i passi della vita per raccogliere passato, presente e futuro. Un punto nell’universo, un tutto in ogni dove.
Ecco, ora porto con me “Cracovia” come un sorriso nascente, la mappa di un tesoro sommerso, la chiave di volta di un nuovo divenire.
Morire ridendo, l’Ateneo del libero pensiero – Le leggi del desiderio
Ebbene si, l’ho visto. L’avevo scartato perché influenzata da una critica mediocre. Invece mi è piaciuto, e tanto.
A parte qualche caduta di ritmo e qualche piccola ovvietà nello sviluppo della storia, il plot funziona.
L’idea è brillante, soprattutto dati i falsi miti e i falsi profeti che oggi imperversano un po’ ovunque, soprattutto in tv, dai talent ai talk show.
Gli attori sono convincenti, soprattutto Nicole Grimaudo che si conferma attrice a tutto tondo, non solo per i fiction-addict, e devo dire che supera in bravura e naturalezza perfino il protagonista.
In questo caso Muccino si è rivelato migliore come regista che come attore, girando con brio e originalità la storia di tanti, ovvero di coloro i quali vorrebbero essere o almeno apparire diversi da come sono. È l’eterno dilemma della ricerca di un’identità fittizia per generare un’identità realistica che soggioghi l’identità reale.
Di fatto, nella paura di essere ciò che siamo fuggiamo così tanto da noi stessi che alla fine non sappiamo nemmeno più ciò che desideriamo essere. Le leggi del desiderio sono crudeli: disciplina, metodo, strategia, tutta da concepire, allestire, sostenere per arrivare a quale obiettivo? Essere amati per ciò che non si è. Non ci potrebbe essere sconfitta peggiore. Della serie “attenti a ciò che desiderate perché magari si realizza davvero…”
Bellissima una battuta della Grimaudo che sconfessa trucchi e dilemmi per dichiarare candidamente di voler essere voluta e desiderata esattamente per ciò che è.
Essere il terzo della coppia è il sogno di tutti, ovvero quella parte sempre desiderata, da sedurre, attrarre e custodire. Più difficile, e qui probabilmente si gioca la vera sfida, essere semplicemente sé stessi e vincere per come si è non per come si vorrebbe essere i si crede che altri ci vorrebbero.
Il punto alla fine è: è meglio desiderare o essere desiderati? E da chi? Dagli altri o da sé stessi? Ovvero meglio essere amati o amarsi?
Il cerchio si stringe: se ci sentiamo amati riusciamo ad amare, se amiamo siamo riamati, cosa nasce prima? E cosa fare alla fine dei nostri desideri? Temerli? Rincorrerli? Realizzarli a tutti costi? Predicarli come l’unica via possibile di felicità?
Desiderare viene dalle stelle. Dallo spazio siderale che ci attraversa, illumina, contiene. Desiderare forse è l’univa via che conduce a noi stessi, alla nostra verità più vera, alla nostra identità più profonda.
Il desiderio più antico? Leggere nel nostro cuore, per discernere ciò che siamo, incontrare gli orchi e le fate, luci e ombre, vizi e virtù, e con la scaltrezza e la purezza dei grandi cavalieri cavalcare la tigre fino al traguardo finale: guardarsi nello specchio, riconoscersi, amarsi, assumersi.
Questo il desiderio più grande, che sfida ogni legge, ogni controllo, ogni stratagemma: vedere il cielo e la terra, l’ora e il momento, il passato e il presente esattamente per quello che sono, senza ansia per il futuro, né rimpianti o rimorsi. E starci dentro. Come in un grande specchio, una grande anima che ci parla e ci racconta, di noi, dell’universo, della vita e della morte.
Morire ridendo, ridere vivendo, vivere oltre e attraverso la morte, in pienezza e libertà. Senza infingimenti, senza fughe, senza ripensamenti. Per il puro piacere di respirare, riflettere, sentire. Qui e ora.
Basta dire Merlino, e la favola diventa realtà
Sto finalmente guardando la saga di Merlin, una serie televisiva in cinque stagioni, trasmessa dalla BBC tra il 2008 e il 2012, e andata in onda un po’ dappertutto nel mondo, perfino in Giappone.
Devo dire che lo script è avvincente, il ritmo sempre serrato, la regia accattivante è sicuramente all’altezza del fantasy mischiato allo psico-thriller. Per quanto riguarda gli attori sono più che bravissimi, direi assolutamente shakespeariani.
Come nella migliore tradizione anglosassone, il teatro è la culla dell’arte interpretativa, direi la fonte maestra del genio, dove capacità tecniche si miscelano sapientemente a talento e ispirazione. In un mix magico che l’immenso William ci ha abituato a gustare nelle sue opere, guidando intere generazioni di attori verso una recitazione realistica ma non banale, giullaresca e insieme filosofica,intensa ed auto-ironica allo stesso tempo. Perché il Vero e il Reale si alleano sempre con la gioia, il sorriso e l’umiltà.
Oltre l’istrionismo, l’egocentrismo e il sensazionalismo, “giocare” un ruolo significa ridere e sorridere dell’umanità, sei suoi vizi ma soprattutto delle sue virtù per non correre il rischio di innalzare troppo l’anima e diventare goffamente umani.
La serie è veramente straordinaria, e ogni puntata cela un insegnamento. Merlin, potente mago con facoltà uniche ma ancora latenti, impara ogni giorno che la magia deve rimanere sempre al servizio del Bene, che ogni mutamento al destino altrui anche solo per migliorare le cose comporta sempre una conseguenza o un prezzo da sostenere, che creare il nuovo significa irrompere nell’ordine costituito e che solo per uno scopo superiore si può varcare la soglia dell’apparentemente proibito.
Osare ma non forzare, innovare senza per forza trasgredire, inventare e non dimenticare. Semplici regole per ridonare energia ad ogni nuovo giorno e vivere la vita con gli occhi stupiti e il cuore puro di un bambino, l’intelligenza aperta sul mondo (anche quello interiore), la costanza e la sapienza di chi sa usare le mani per costruire e custodire.
La vera magia alberga nel profondo. Laddove l’anima si risveglia, la coscienza si dilata, la vita riprende senso. Uomo del mare o pietra smeriglia (anche preziosa quando trasparente), l’etimologia di Merlino conduce alla purificazione, al lavacro, alla trasformazione, all’onda nuova, al ritmo ancestrale e sempre attuale come le correnti oceaniche. Solo se in armonia con il cosmo, l’uomo si muove nell’habitat che gli è proprio, senza passi falsi, oltre il tempo e lo spazio,il poco, e il troppo. Al giusto passo. Qui ed ora. Senza magie, ma magicamente integro.
Quale etica? Quale morale? Quale insegnamento si cela tra le fiabe? “Into the Woods” ci regala una visione alternativa…
Il film di Rob Marshall è basato sull'omonimo musical di Stephen Sondheim a sua volta ispirato da celebri fiabe tradizionali come Cenerentola, Cappuccetto Rosso, Raperonzolo dei Fratelli Grimm e Jack e la pianta di fagioli (racconto popolare diffuso in Gran Bretagna e negli USA), e magnificamente interpretato soprattutto da Meryl Streep, una strega che si comporta un po’ da maga e un po’ da grillo parlante. 
I buoni sono sempre buoni e i cattivi sempre e soltanto cattivi? E noi? Chi siamo e come siamo? Sempre e soltanto una cosa sola? O viviamo nel nostro “bosco” interiore una selva di contraddizioni speso irrisolte e che ci portano a non gustare appieno la nostra esistenza?
Perché la vera domanda, forse, non è cosa è bene ma cosa è “meglio”, per me.
“Into the Woods” la prende alla larga ma alla fine ci conduce alla fatidica domanda: esistono un bene e un male che siano assoluti? O piuttosto esistono mille modi e milioni di sfumature? Le nostre azioni sono spesso pregne di entrambe le intenzioni, ma per questo dovremmo buttare via il bambino con l’acqua sporca? E dovremmo rinunciare ad entrare nel bosco? Spesso e volentieri nella vita si impara molto dai propri errori. Ma è anche vero che si impara molto anche dalla fatica e dagli sforzi compiuti su sé stessi per tentare di seguire una strada perfetta.
Trovare da sé ciò che meglio si addice al proprio cammino non è cosa facile, piuttosto è roba da giocolieri. Nello scenario di una società “liquida”, “Into the Woods” prende la forma di un pellegrinaggio iniziatico per tentare di sperimentare sé stessi, imparare a crescere, e magari trovare un po’ di felicità. Che però non è mai quella che ci si aspetta. Spesso le verità sono ribaltate. Spesso il ribaltamento mette in luce chi siamo veramente. Spesso il bosco fa paura perché inesplorato, pericoloso e ricco di sorprese (alcune delle quali terrificanti). Esattamente come il nostro inconscio, che evitiamo di “frequentare” per timore di scoprire qualche bestia recondita nascosta tra le pieghe dell’anima.
Laddove è anche vero che abbiamo bisogno di un obiettivo sicuro. Un bene e un male assoluti a volte semplificano la nostra ricerca, a volte la complicano. Comprendere da sé cosa è giusto e cosa è sbagliato è assai auspicabile anche perché forse la risposta è ciò che conta ora, in questo momento, per ognuno di noi. E l’ora cambia sempre…
Dunque forse la vera domanda è “come”? Esiste una Via, un cammino, una cerca, un metodo da seguire per arrivare là dove vogliamo arrivare? Sicuramente esiste, così come il esiste il Sole, che apparentemente nasce e muore ogni giorno…per risorgere il giorno dopo… La questione si complica. Se esiste, come trovarla? E una volta trovata come riuscire a seguirla? E poi sarà sempre la stessa via per tutta la vita?
Le domande si moltiplicano ed anche le risposte. Ciò che resta invariato è il desiderio di scoprire qualcosa di unico, magico, irripetibile, inconoscibile eppure esplorabile, che poi è il senso, il verso, il motivo ultimo della nostra vita.
Affrontare il bosco, è come scendere in campo e affrontare la vita vivendola in prima persona, disposti a pagare il prezzo che ci vuole. Questo coraggio, questo ardore possiamo trovarlo dentro di noi, se solo desideriamo compiere il viaggio non solo per noi stessi ma anche con e per i nostri cari.
Tutto il bello, tutto il buono, tutto vero diventano cenere se non siamo capaci di condividerlo. Tutto il male, tutto il dolore, tutti gli errori diventano oro se riusciamo a guardare ai nostri limiti senza perdere la speranza. Tutte le conquiste sono fondamentali se aprono il cuore e ci avvicinano ad una delle verità più temute ed ignorate. Io sono te, e tu sei me. Punto.
Oltre le nostre singole identità e i percorsi individuali, oltre lo spazio e il tempo, oltre gli anni passati e il vissuto che incombe sul futuro, il presente apre un varco nei nostri cuori, ora dopo ora. E ci insegna a sbocciare, insieme, come le rose selvatiche che si intrecciano sotto il sole d’inverno.
Appesi alla croce dell’esistenza, immersi nel nostro bosco interiore, fissando lo sguardo sulla luce, forse troveremo la via che conduce all’unità dentro di noi, sì da tendere le mani verso chi ci è prossimo, in un mutuo e propizio anelito di trasformazione e resurrezione comune.