Ordini Cavallereschi Crucesignati

Questo sito è a disposizione di tutti coloro che intendono inviare i loro pezzi, che dovranno essere firmati, articoli sulle gesta della Cavalleria Antica e Moderna, articoli di interesse Sociale, di Medicina,di Religione e delle Forze Armate in generale. Il sottoscritto si riserva il diritto di non pubblicare sul Blog quanto contrario alla morale ed al buon gusto. La collaborazione dei lettori è cosa gradita ed avviene a titolo volontario e gratuito, per entrambi.

lunedì 29 ottobre 2007

Viva l'Italia!

L’Inno di Mameli, “far nazioni” e “far canzoni”
Prof. Stefano Pivato - Università di Bologna

Il 24 maggio 1862, all’Her Majesty’s Theatre di Londra, in occasione della Esposizione Universale, viene eseguito l’Inno delle Nazioni. Composto da Giuseppe Verdi, l’inno comprende un’introduzione, un coro, un solo soprano e un finale nel quale si sovrappongono God Save the Queen, la Marsigliese e Fratelli d’Italia.
Vera e propria anticipazione di un inno europeista, quella esecuzione suona non solo come un omaggio del grande compositore di Busseto alle Nazioni liberali dell’Europa ottocentesca, ma sancisce l’ormai avvenuta adozione degli inni nazionali come parte costitutiva dell’apparato rappresentativo e simbolico delle Nazioni. Gli inni nazionali si diffondono a partire dalla fine del XVIII secolo come espressione dell’idea di Stato-Nazione, conseguenza dei processi politici e culturali innescati dalla Rivoluzione francese, e fanno parte di quell’apparato di simboli e di codici che definiscono la rappresentazione estetica ed emotiva dello Stato nazionale: la bandiera, le uniformi dell’esercito, i miti nazionali e l’inno.
In realtà, come afferma Eric Hobsbawm, uno dei maggiori storici del Novecento, se l’Ottocento può essere definito come il secolo del “far nazioni”, nondimeno è il secolo del “far canzoni” che, come la letteratura, devono in un certo modo rappresentare il sentimento intimamente legato alla formazione delle comunità nazionali. Gli inni costituiscono dei preziosi documenti, non solo musicali, che ci testimoniano i difficili percorsi dell’affermazione dello Stato-Nazione e delle dialettiche politiche che si sviluppano al suo interno. Esemplificativa a tale proposito è la vicenda di Fratelli d’Italia, la cui storia inizia l’8 settembre 1847 allorché l’autore stende in poche ore le strofe del futuro inno nazionale italiano. Il Canto degli italiani, questo il titolo all’origine, comincia a circolare nel dicembre del 1847, stampato su fogli volanti e, qualche mese più tardi, risuona sulle barricate delle Cinque giornate di Milano. Autore di quei versi è Goffredo Mameli, nato a Genova il 5 settembre 1827 e dunque all’epoca appena ventenne. Fervente mazziniano, Mameli sarebbe morto il 6 luglio 1849 a seguito delle ferite riportate combattendo in difesa della Repubblica Romana. La biografia politica del giovane compositore non è elemento secondario per comprendere la fortuna di quei versi, che sarebbero stati riconosciuti come inno ufficiale della Nazione italiana solo un secolo più tardi dalla loro originaria stesura. È pur vero che quelle strofe godono di una certa popolarità nei momenti più significativi che precedono l’Unità d’Italia: vengono cantate in occasione delle Cinque giornate di Milano, vengono intonate durante la spedizione dei Mille e nel corso delle guerre di indipendenza.
Tuttavia, al momento della proclamazione del Regno d’Italia è la Marcia reale del capobanda del Reggimento Savoia, Giuseppe Gabetti, ad essere elevata al rango di inno nazionale. In realtà, a partire dall’epilogo unitario, la Marcia Reale e il Canto degli italiani convivono secondo percorsi paralleli a esprimere le due principali ispirazioni del Risorgimento. Se la marcia del capobanda Gabetti continua ad essere suonata nelle occasioni ufficiali, i versi di Mameli sono invece cari a quanti non si riconoscono nell’epilogo moderato del Risorgimento italiano. E, fra questi, lo stesso Giuseppe Verdi che, sia pure in maniera non sempre coerente, aveva mostrato in più di una occasione un’aperta simpatia per le idee repubblicane. Da qui la preferenza del compositore di Busseto per l’inserimento nell’Inno delle Nazioni del Canto degli Italiani anziché della Marcia reale in occasione della Esposizione Universale di Londra. Certo, l’identificazione del suo autore con gli ambienti del repubblicanesimo non deve aver giovato alla fortuna dell’inno nel periodo monarchico. Ma da dove traspariva l’impronta antimoderata dell’inno di Mameli? A ben guardare, la cifra del repubblicanesimo, o forse per meglio dire del giacobinismo di Mameli, si coglie in una serie di riferimenti più storici che immediatamente politici. In definitiva, forse in quei richiami ai modelli del classicismo che la Rivoluzione francese aveva eletto a rappresentazione non solo estetica degli ideali rivoluzionari. Già nella strofa iniziale, secondo uno schema della classicità allora assai in voca nella simbologia repubblicana, la prima citazione storica è dedicata alla figura di Scipione l’Africano (“Dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa”). Con tutta evidenza si tratta del richiamo ad un personaggio che non solo aveva contribuito a rafforzare il primato di Roma, ma aveva anche rappresentato un momento di apertura ideale contro il tradizionalismo. In questo senso l’evocazione di Scipione, secondo l’uso della storia elaborato dai rivoluzionari francesi, sta a significare l’elevazione dell’epopea classica a modello di società nuova. In particolare, Scipione simboleggia non già la Roma dei Cesari ma, secondo la vulgata del classicismo giacobino, la grandezza e il riscatto del popolo romano nei confronti dei Cartaginesi di Annibale. La citazione di Scipione non costituisce l’unico debito di Mameli nei confronti di quella cultura della Rivoluzione francese cara agli eredi italiani del giacobinismo. Fin troppo evidente è infatti nel verso “Stringiamoci a coorte...” l’evocazione della Marsigliese (“Formez vos bataillons...”).
Fin qui i debiti con il classicismo e il rivoluzionarismo d’oltralpe di cui i seguaci di Mazzini si proclamano eredi. Mal si adatta dunque a rappresentare il sentimento dell’unità nazionale, avvenuta sotto l’egida della monarchia sabauda, un inno che contiene riferimenti troppo evidenti a una rivoluzione che aveva decapitato nobili e teste coronate.
Ma l’ispirazione repubblicana dell’inno si coglie ancor più chiaramente nella quinta strofa che costituisce un condensato di quei riferimenti storici che l’idea e l’etica repubblicana Ottocentesca considerano come gli antecedenti più significativi dell’idea di italianità. Fuor di metafora i richiami sono alla battaglia di Legnano che, con la sconfitta di Federico Barbarossa nel 1176, segna una delle premesse della affermazione politica dei comuni italiani; e a Ferruccio Ferrucci, nel testo “Ferruccio”, il comandante della Repubblica fiorentina del 1530 celebrato come uno dei precursori dell’idea repubblicana.
Quindi l’invocazione di Balilla che, il 5 dicembre 1746, dà inizio alla rovolta genovese contro gli austriaci, per concludere con la citazione di quei moti popolari che fra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, consentono la cacciata dei francesi dalla Sicilia: i Vespri Siciliani. L’inno di Mameli esalta dunque non già il ruolo delle dinastie, ma, conseguentemente alla ispirazione mazziniana, quello dei “popoli”. Questo spiega perché, durante l’unificazione, all’inno ritenuto troppo rivoluzionario, fosse preferita la Marcia reale del Gabetti, vera e propria esaltazione della dinastia sabauda: “Viva il Re! Viva il Re! / Chinate o reggimenti le bandiere al nostro Re / [...] Bei figli d’Italia gridate evviva il Re!”. La “sfortuna” di Fratelli d’Italia nel corso dell’Ottocento non si limita alla sua mancata adozione come inno nazionale, ma anche alla sua scarsa popolarità rispetto ad altri canti risorgimentali. I motivi più popolari che accompagnano le guerre di indipendenza, la spedizione dei Mille o le Cinque giornate di Milano, derivano per gran parte o dalla citazione delle più popolari arie del melodramma o dalla tradizione del patrimonio folcloristico regionale. Da quest’ultimo filone provengono infatti La bella Gigogin e Il povero Luisìn. L’orecchiabilità e il richiamo agli affetti domestici dei due motivi spiega la loro popolarità rispetto all’inno di Mameli, denso di riferimenti storici e letterari e per questo forse di non facile ricettività. La bella Gigogin e Il povero Luisìn non sono gli unici esempi, in Europa, di canzoni che più degli inni ufficiali si prestano a esprimere il sentimento dell’identità nazionale; o comunque sono cantate più frequentemente degli inni stessi. È quanto avviene, ad esempio, in Austria laddove, almeno a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, la Marcia di Radetzky gode di una popolarità maggiore rispetto all’inno imperiale Gott erhalte, Gott beschuetze. Ancora oggi, nella memoria collettiva degli austriaci, la Marcia di Radetzky, vera e propria rievocazione del glorioso passato dell’Impero austroungarico, è certamente più nota del meno eroico Terra di montagne e di fiumi che, dal 1947, è l’inno della Repubblica austriaca. Il Canto degli Italiani subisce poi, sempre nell’Ottocento, la rivalità di altri motivi di intonazione politica come, per esempio, l’Inno di Garibaldi, il cui successo deriva non solo dalla mitizzazione dell’eroe dei due Mondi, ma anche dalla appropriazione politica da parte degli internazionalisti pronti a ravvisare in Garibaldi uno dei precursori del socialismo. Troppo radicale per gli ambienti monarchici e moderati, eccessivamente conservatore per anarchici e socialisti, l’inno di Mameli continua a godere di una certa “sfortuna” anche nel Novecento. Nessuna ufficialità è riconosciuta al canto di Mameli e Novaro neppure durante gli anni del fascismo. Anzi, pur mantenendo La marcia reale come inno nelle manifestazioni ufficiali, il regime mussoliniano vieta l’esecuzione di brani al di fuori del repertorio fascista.
Di fatto in quegli anni Fratelli d’Italia, pur continuando ad essere tollerato in patria, viene cantato in certi ambienti dell’antifascismo e più tardi dei partigiani che lo intonano insieme a Fischia il vento.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, probabilmente per attenuare nell’opinione pubblica una presenza ingombrante come quella della monarchia, rea di aver consegnato l’Italia nelle mani di Mussolini, il Governo Badoglio affida alla Leggenda del Piave il ruolo di inno nazionale. Finalmente, il Consiglio dei Ministri, su proposta del ministro della Difesa Cipriano Facchinetti, repubblicano, decreta il canto di Mameli e Novaro come l’inno ufficiale del neonato stato italiano e la messa in soffitta della Marcia reale, sottolineando il definitivo passaggio dal regime monarchico a quello repubblicano sancito dal referendum istituzionale del 2 giugno 1946. Il Canto degli italiani diviene dunque il nostro inno nazionale. La vicenda di Fratelli d’Italia è esemplificativa della storia degli inni nazionali, le cui fortune riflettono i percorsi delle singole comunità verso il faticoso processo dell’unità nazionale. Al pari della bandiera, dei monumenti e dei vari simboli che costituiscono la rappresentazione dell’immagine e dell’identità di patria, anche l’inno è sottoposto ai mutamenti dei regimi e dei climi politici.

Fratelli d’Italia
l’Italia s’è desta
dell’elmo di Scipio1
s’è cinta la testa.
Dov’è la vittoria?
Le porga la chioma,
ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamoci a coorte2,
siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.

Noi siamo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam
popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
bandiera3, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte,...

Uniamoci, amiamoci;
l’unione e l’amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore.
Giuriamo far libero
il suolo natio;
uniti per Dio
chi vincer ci può?
stringiamci a coorte,...

Dall’Alpi a Sicilia
dovunque è Legnano4,
ogn’uom di Ferruccio5
Ha il core, ha la mano;
i bimbi d’Italia
si chiaman Balilla6,
il suon d’ogni squilla
i Vespri7 suonò.
Stringiamci a coorte,...

Son giunchi che piegano
le spade vendute:
già l’aquila d’Austria8
le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia,
il sangue polacco,
bevé col cosacco,
ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte,...


Note
1 L’elmo di Scipio di cui l’Italia, pronta alla guerra d’indipendenza, si è cinta la testa, è quello di Scipione l’Africano che difese Roma repubblicana dal cartaginese Annibale e lo sbaragliò a Zama nel 202 a. C.
2 La coorte, cui gli Italiani sono invitati a stringersi, è la decima parte della legione romana; la Patria chiama alle armi il suo popolo.
3 Nel 1848 l’Italia è divisa in sette Stati, il tricolore diverrà il comune vessillo.
4 La battaglia di Legnano con cui la Lega Lombarda sconfisse Federico Barbarossa nel 1176.
5 La difesa di Firenze dall’assedio dell’imperatore Carlo V nel 1530, in cui si distinse il capitano Francesco Ferrucci (che disse al suo infame assassino Maramaldo: “Tu uccidi un uomo morto”).
6 I moti genovesi contro l’Austria nel 1746, cui partecipò il mitico Balilla, il ragazzo del popolo che diede inizio alla rivolta tirando un sasso contro gli Austriaci.
7 I Vespri siciliani contro i Francesi (dominazione angioina) nel 1282.
8 La quinta strofa annuncia il declino dell’Austria, simboleggiata dall’aquila asburgica; si serviva di truppe mercenarie (spade vendute, ormai deboli come giunchi) e durante le repressioni (come nell’Italia del 1796, così in Polonia nel 1831) si alleò con la Russia (il cossacco), ma si trovò davanti una durissima resistenza popolare (il sangue dei due popoli brucia il cuore dell’aquila).

Nessun commento: