Ordini Cavallereschi Crucesignati

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giovedì 22 maggio 2008

LA LEGGENDA NERA DI RAIMONDO DI SANGRO

di Gaetano Marabello (Pres. del Comitato Scientifico)

Che fosse un “uomo mirabile nato a tutto osare”, come si legge sulla sua lapide, sta a dimostrarlo la splendida Cappella che ha lasciato nel pieno centro di Napoli. E che la sua aspirazione “affinché nessuno lo dimentichi” si sia sinora avverata risulta dall’incessante flusso di presenze in questa costruzione, chiamata “Pietatella” dall’antico dipinto miracoloso di S. Maria della Pietà che campeggia sull’altare. Sul misterioso principe di Sansevero, che ne portò a termine l’edificazione, se ne son dette e scritte di tutti i colori, e ciò anche grazie all’interessato che fece di tutto perché ciò avvenisse. Quest’uomo eclettico e “filosofo di spirito” fu definito da Antonio Genovesi “molto dedito alle (arti) meccaniche”: Ma a questo passatempo, davvero inusuale per gli aristocratici del suo tempo, egli aggiungeva - a detta sempre del Genovesi - una “fantasia” così “forte” da riuscire sia a farsi battezzare “riavulo” (diavolo) dal popolino più superstizioso, sia a mettere in forte sospetto le autorità civili ed ecclesiastiche.
Egli nasce a Torremaggiore (FG) nel 1710 da una nobile famiglia, che risale a Carlo Magno. Rimane presto orfano di madre. Suo padre Antonio si dà ad una vita dissoluta, nel corso della quale uccide sia il padre di una giovane che ha stuprato, sia il sindaco del paese natale che lo ha denunziato. Pentitosi, entrerà poi in clausura meritandosi da parte del figlio una delle statue più celebri che si ammirano oggi nella Cappella: il Disinganno. A seguito della morte dei due fratelli maggiori e del nonno Paolo, Raimondo diventa ad appena sedici anni il VII principe di Sansevero ed eredita circa 600 feudi. Studia nel collegio romano dei Celestini, dove apprende tra l’altro dell’esistenza dei “Libri proibiti” che il Vaticano ritiene capaci di aprire la via alla magia nera. Coronerà il suo sogno di poterli leggere solo nel 1745, quando Benedetto XIV l’autorizzerà ad accedere agli Archivi segreti. La sua vita si conclude tragicamente nel 1771 per un probabile tumore contratto nel corso dei suoi esperimenti. Nel corso della sua esistenza riuscì ad attuare una simbiosi abbastanza singolare tra una visione naturalistica dell’alchimia e dell’ermetismo e una smania di sperimentazione chimica e meccanica che in lui fu quasi ossessiva. Il suo palazzo che si vede ancora su piazza S. Domenico a Napoli divenne una sorta di laboratorio alchemico, dove ogni notte – stando al racconto di Salvatore di Giacomo – “fiamme vaganti, luci infernali (…)guizzavano dietro gli enormi finestroni che danno sul pianterreno”. Quando si applicava alla fucina, infatti, la sua natura gaia, limpida e barocca subiva una trasformazione tale da apparire quasi luciferina. E come se non bastasse le sue invenzioni, fatte per stupire il prossimo o per compiacere lo stesso re Carlo di Borbone, andavano di pari passo con le leggende più terrificanti. Si vociferò di sette cardinali scuoiati per esser trasformati in comode poltroncine, nonché di fanciulli comprati dalle famiglie più povere e poi castrati per farne “voci bianche” per il teatro S. Carlo ed infine di schiavi uccisi inoculando nelle loro vene un liquido metallizzante. I suoi aiutanti fecero il resto, perché misero in giro voci incredibili di gamberi secchi fatti risuscitare, di lumi eterni che non si affievolivano mai o di spettri apparsi nel corso di esperimenti a base di fosfina emessa dai cadaveri. Racconti questi che fecero presto sussurrare, ogni volta che tuonava, che il principe stava scarrozzando per i vicoli il demonio in persona. Persino la sua morte fornì materia per le dicerie, avvalorate dal fatto che la sua tomba non ne contiene stranamente il corpo. Si disse che si fosse fatto tagliare a pezzi per poter poi risorgere intatto il 40° giorno (le allusioni al rituale massonico sono evidenti), ma che un’imprevista apertura anticipata del sarcofago avrebbe fatto fallire la sua rinascita. A parte ciò, per sfuggire ai fulmini della legge canonica, i suoi successori distrussero buona parte delle formule lasciate da quest’uomo forse troppo moderno per la sua epoca. Non si sa quindi quante delle invenzioni, da lui vantate nella “Lettera apologetica” che ci ha tramandato, siano frutto di millanteria e quante invece no. Per tutte, ricordiamo che nella tipografia, che impiantò nei suoi sotterranei, mise a punto un sistema all’avanguardia per la stampa a più colori con una sola “passata di torchio” (tecnica oggi usata per le stampanti a colori). Avendo pubblicato libri contrari alla dottrina cattolica, finì nel mirino della Congregazione dell’Indice e, per giustificare il “maligno gergo” usato, dovette scrivere una supplica che però non venne accolta. Chiusa prudenzialmente la tipografia, si dedicò all’edificazione del tempio di famiglia oggi noto come Cappella Sansevero. Dilapidò il suo patrimonio nell’impresa, tanto da dover affittare parte del suo palazzo per pagare le maestranze. Ad un certo punto, finì addirittura in prigione quando il ministro Tanucci, che lo detestava ritenendolo complice del suo estimatore Federico II di Prussia, scoprì che gli inquilini erano dei biscazzieri. Appianato comunque ogni debito grazie ad un matrimonio d’interessi contratto dal primogenito, continuò a celare all’interno della Cappella i suoi interessi mai sopiti per l’esoterismo. Ha lasciato in tal modo sulla pietra un’infinità di messaggi, sui quali si dilettano da allora i tanti patiti dell’occultismo. Ne potremo eventualmente riparlare in un’altra occasione. Per ora basterà dire che la sua personalità eccezionale lo portò a divenire Gran Maestro della loggia “Rosa d’ordine magno” (anagramma di Raimondo de Sangro). In tale veste riuscì nell’intento di unificare le due anime, militare e borghese, della massoneria partenopea. Purtroppo per lui, in conseguenza della bolla pontificia “Providas Romanorum pontificum” del 28 maggio 1751, il suo protettore Carlo di Borbone bandì a sua volta la massoneria dal regno (editto del 2 luglio). Raimondo de Sangro, convocato a corte, fu indotto ad abiurare al giuramento di loggia e a consegnare una lista degli adepti. Nella circostanza, egli denunziò probabilmente solo quelli che erano legati per convenienza al potere civile e religioso e che, proprio per questa ragione, non subirono grosse conseguenze. Salvò in tal modo (anche grazie ad un “provvidenziale” incendio sprigionatosi in contemporanea tra le carte del suo palazzo) quei “fratelli”, che obbedivano alle concezioni speculative del “Rito scozzese antico e accettato” cui egli aderiva. Insomma, una diavoleria in tutto degna di un tipo sulfureo come lui..

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