Questo sito è a disposizione di tutti coloro che intendono inviare i loro pezzi, che dovranno essere firmati, articoli sulle gesta della Cavalleria Antica e Moderna, articoli di interesse Sociale, di Medicina,di Religione e delle Forze Armate in generale. Il sottoscritto si riserva il diritto di non pubblicare sul Blog quanto contrario alla morale ed al buon gusto. La collaborazione dei lettori è cosa gradita ed avviene a titolo volontario e gratuito, per entrambi.
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mercoledì 25 giugno 2008
SABOTAGGIO ALL'ACQUEDOTTO PUGLIESE
All’inizio del 1941, mentre la guerra infuriava sui vari fronti, gli inglesi sapevano bene quale fosse il più grande acquedotto europeo. Si trovava in Italia e soddisfaceva le esigenze idriche di parte del Meridione. Un attacco ben centrato a questa struttura avrebbe potuto produrre un incalcolabile effetto propagandistico e ripercuotersi sul morale della popolazione. E, in più, avrebbe costretto da allora l’avversario ad immobilizzare una parte del suo potenziale nell’attività di prevenzione.
Lo spunto per l’azione partì da una ditta inglese che, avendo collaborato a suo tempo alla realizzazione dell’opera, possedeva gli opportuni elementi di conoscenza dei suoi punti deboli. Va detto che, poiché dalla nostra regione partivano molti dei convogli diretti in zona d’operazioni, un’interruzione del flusso di acqua avrebbe avuto effetti dirompenti. Fu quindi approntata in tutta segretezza una compagnia di commandos dello “Special Air Service” (SAS), da paracadutare presso un ponte di un affluente dell’Ofanto, il torrente Tragino, sito al confine tra la Campania e la Basilicata. Si pensò di utilizzare per il lancio otto aerei “Whitley MK V”, in uso nella prima scuola di paracadutismo di Ringway. L’operazione, denominata “Colossus”, prese avvio il 4 febbraio con destinazione Malta. Da lì, nel tardo pomeriggio di sei giorni dopo, mentre due bombardieri dello stormo partirono per un’azione diversiva su Foggia, gli altri sei veivoli con una quarantina di parà a bordo s’alzarono in volo diretti contro il ponte. Il malore di un militare costrinse però un “Whitley” a partire in ritardo, compromettendo in parte la missione perché a bordo c’era l’ufficiale incaricato di minare la struttura. Le prime cinque squadre di sabotatori presero terra quindi con forte anticipo. Rastrellarono sia alcuni contadini che un militare del luogo e li costrinsero, sotto la minaccia delle armi, al recupero del materiale esplosivo aviotrasportato lanciato nei paraggi. Poiché la sesta squadra non arrivava e i tempi stringevano, si decise di procedere ugualmente per non rischiare di vedere sfumare l’effetto sorpresa. Se non che, dato che la base del pilone centrale era immersa nell’acqua, gli inglesi dovettero rinunciare a minarla come sarebbe stato necessario per produrre i danni maggiori. Ripiegarono allora su un pilone laterale con un artificiere improvvisato, che non se la cavò del tutto male. Il piano fu completato facendo saltare pure un vicino ponte ferroviario, sì da impedire poi ad eventuali squadre di operai di affluire sul posto per rimediare. Per le ragioni che si son dette, il brillamento delle cariche di tritolo non provocò il disastro programmato perché ne derivò solo un arresto del flusso di acqua limitato a qualche giorno. Più persistente fu invece la psicosi del paracadutista nemico, che da quel momento serpeggiò tra le gente. A quel punto, i sabotatori affidarono i prigionieri ad un loro compagno che, rimasto ferito nell’atterraggio, non poteva certo seguirli nella fuga di 60 chilometri verso Paestum dove un sommergibile doveva recuperarli. Il militare inglese non riuscì tuttavia ad impedire la fuga del soldato italiano catturato, che lanciò l’allarme. E così i gruppetti in cui si erano suddivisi gli uomini del commando furono man mano facilmente catturati. Solo uno di loro riuscì ad aprire prima il fuoco, uccidendo due italiani. Avviati a Sulmona, i prigionieri furono ovviamente interrogati. E così con somma sorpresa venne fuori che tra di loro c’erano addirittura due italiani. Si chiamavano Nicol Nastri e Fortunato Picchi. Il primo se la cavò con la prigionia perché aveva preso la cittadinanza inglese, mentre l’altro finì davanti al plotone d’esecuzione per esser fucilato alla schiena. Non gli era servito dotarsi di documenti falsi o qualificarsi come “signor Pierre Dupont, francese libero”. Secondo quanto risulterà a fine guerra, venne infatti scoperto perché s’era messo a “fischiettare sommessamente il motivo di una vecchia canzonetta napoletana”. Si venne a sapere che, allo scoppio delle ostilità, Picchi viveva già da decenni a Londra. Qui, da antifascista conclamato aveva fatto richiesta di arruolamento, anche se aveva voluto mantenere la sua cittadinanza. Pur avendo già quarantasei anni, era riuscito persino ad entrare nel commando paracadutista in questione. Si giustificò adducendo di aver rivestito il semplice ruolo dell’interprete, ma per le leggi di guerra era null’altro che un traditore della patria. E, benché il comune di Carmignano in cui era nato abbia provato in seguito a rivalutarne la figura, egli restò “dopotutto un traditore del suo paese” anche per un suo commilitone del SAS, disposto a riconoscergli al massimo la tempra dell’idealista.
Ma l’operazione “Colossus” era destinata a provocare altre tragedie più o meno grandi persino attraverso due oggetti appartenuti ai suoi protagonisti. Nel primo caso, si trattava di un fazzoletto, su cui era ricamata una mappa, e riguardò il capitano Agostino Piscitelli che aveva interrogato Picchi scoprendone l’identità. Questo ufficiale dei carabinieri, pur avendo fatto solo il suo dovere, a fine guerra fu tradotto davanti alla Corte d’Assise Straordinaria, cavandosela per il rotto della cuffia vista l’aria che tirava in quel momento. Un suo collega in cerca di qualche benemerenza dell’ultima ora lo aveva infatti vilmente denunziato, avendone raccolto la confidenza secondo cui aveva sequestrato al Picchi il fazzoletto. L’altra tragedia riguardò il generale Nicola Bellomo, ben noto ai baresi per la difesa del porto dopo l’otto settembre. Era stato proprio lui a contribuire alla cattura della squadra del commando inglese, responsabile di aver aperto il fuoco contro gli italiani e di averne uccisi due. Nell’occasione, il generale, mentre si prodigava per sottrarre i prigionieri dal linciaggio popolare, si prese la colt dell’ufficiale nemico che guidava il manipolo. Fu la sua rovina. Quella stessa pistola egli aveva indosso anche in seguito, allorché due prigionieri inglesi fuggiti da Torre Tresca finirono uccisi nel corso del rastrellamento successivo. Fu accusato dagli inglesi di averla usata proprio in quel frangente, sparando ai due fuggiaschi. Accusa opinabile, perché, in ogni caso, egli avrebbe agito secondo le leggi di guerra che consentono di far fuoco contro i soldati nemici che tentano di sottrarsi dalla prigionia. In realtà, forse, quell’arma dava sui nervi agli imperturbabili sudditi di Sua Maestà. Ricordava infatti loro che la tanto decantata operazione “Colossus” si era risolta, in fin dei conti, in un mezzo fiasco.
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