Dott. Pietro VITALE
(giornalista e scrittore)
Tessera Naz. Ord.
dei giornalisti n.116644
Direttore del blog International:
www.legestadellacavalleria.blogspot.com
“La fine del mondo è quando si cessa di aver fiducia”.
(Madeleine Ouellette-Michalska)
«L’Ideologia Risorgimentale» non è
sinonimo di Risorgimento. Essa è il codice etico-politico della classe
dirigente nazionale, dopo la costituzione dello Stato unitario, è il ‘credo’
politico di assicurare il buon funzionamento Istituzionale” (Pietro
Vitale)
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Cari amici,
I nodi della storia italiana, indubbiamente sono molti: istituzionali,
politici, economici, sociali, religiosi
. Non è possibile ricordarli
tutti né, tantomeno, affrontarli esaurientemente. Nel contesto di una
riflessione come questa, opportunamente proposta in occasione dei
150 anni di storia unitaria, vorrei
soprattutto sviluppare (a parte Benigni a Sanremo), qualche considerazione sul
rapporto tra questi nodi, l’unità italiana, il ruolo della Chiesa e dei
cattolici.
Questi 150 anni, infatti,
sono stati anzitutto la storia di tale unità, dei suoi successi e dei suoi
fallimenti, dei suoi slanci delle sue crisi e delle sue luci e ombre.
L’unità italiana che non è mai stata scontata, né prima né dopo il 1861, ma
non si tratta di un caso unico.
Tutte
le nazioni moderne sono “comunità immaginate” e, cioè, costruzioni culturali
frutto di complesse “invenzioni” storiche, e la loro esistenza dipende dalla
volontà dei loro membri: la nazione, scriveva Renan, è il plebiscito di ogni
giorno, perché ogni giorno inglesi, francesi o tedeschi rinnovano,
implicitamente, la scelta di stare insieme. Ciò vale, naturalmente, anche per gli italiani, seppure con
peculiarità rilevanti. A
partire
dall’inizio degli anni novanta, però, si è cominciato a discutere in Italia di
che cosa può succedere
“se cessiamo di essere una nazione”
prendendo coscienza che le nazioni non sono eterne e che gli stati possono
finire, provocando la disgregazione di ciò che a lungo è sembrato
insostituibile.
Ad un lettore frettoloso di questo trattato potrebbe apparire non come
l’analisi di un fallimento, quello del nostro Risorgimento nazionale, ma come
le pagine di una storia “locale”, come un risultato di un’indagine
campanilistica votata a spiegare il perché ho voluto inserire il fallimento di
una rivoluzione annunciata, quella di
Garibaldi
che intendeva dare risposte immediate a secoli di frustrazioni contadine, nel
fallimento più grande dell’idea risorgimentale, un fallimento che, è detto nel
titolo, rende antiche le origini del malessere nazionale.
Orbene, dopo questa breve e doverosa introduzione, cari
amici, anch’io desidero dire la mia, come studioso di storia di ordini
cavallereschi crucesignati, di filosofia
e scienze esoteriche. Dopo tante insistenze e richieste da quotidiani e periodici,
mi sono deciso porre alla vostra attenzione queste poche linee, non dico che
sia la vera storia del risorgimento italiano, ma, in linea di massima ciò che
la maggior parte dei testi storici hanno sempre riportato e divulgato dopo una mia
attentissima lettura e ricerche.
“DECLINO E MORTE
DELL’IDEOLOGIA RISORGIMENTALE?”
Sono
grato al Prof. Gianni Clara per spunti storici e delucidazioni inviatemi, ed argomenti che sono stati pubblicati su Serenamente, (i
quaderni del dott. Alberto VACCA)
L’ARCHITETTURA DELLO STATO
CENTRALIZZATO E IL REGIME PREFETTIZIO. Il
breve intervallo fra ordine vecchio e nuovo, durante il quale lo Stato italiano
fece le scelte che ne avrebbero fissato i caratteri e segnato l’evoluzione,
durò dal gennaio all’ottobre del 1861. Fedeli
alla loro ideologia liberale e all’ispirazione inglese della loro cultura
politica, gli uomini della destra concepirono per le nuove province del Regno
un sistema politico-amministrativo che avrebbe rispettato e valorizzato le
tradizioni locali, le identità regionali e i vecchi patriottismi municipali. Al
governo centrale sarebbero rimaste alcune competenze unitarie: gli esteri, la
difesa, i trasporti, le poste. Ma il 9 Ottobre Bettino Ricasoli, presidente del Consiglio dopo la morte di Cavour, estese per decreto a tutto il
Paese la legge con cui Urbano Rattazzi
aveva applicato alla Lombardia, nell’Ottobre del 1859, il regime
amministrativo, fortemente centralizzato, delle province piemontesi.
Fu istituito il Prefetto,
rappresentante del governo nelle province del regno, fu abbandonato il modello
inglese e adottato, con una radicale inversione di fronte, il modello francese.
Moriva, ancor prima di nascere, lo Stato decentrato che Minghetti aveva prefigurato nei decreti del marzo precedente, e
nasceva al suo posto lo Stato napoleonico. Che cosa era accaduto fra il marzo e
l’ottobre del 1861 perché il paese imboccasse improvvisamente una strada così
radicalmente diversa da quella che il partito vincente aveva immaginato per il
futuro? Era morto Cavour, era
scoppiata la guerra del brigantaggio, era emersa con evidenza la precarietà
nazionale ed internazionale dello Stato Unitario. Dopo avere miracolosamente
raggiunto traguardi che nessuno si era prefisso, il governo dovette
improvvisamente misurarsi con l’ostilità del clero, l’indifferenza di una larga
parte dell’opinione pubblica delle regioni annesse, la diffidenza di alcune
grandi potenze, la distanza economica e civile fra il nord e il sud, le
condizioni dell’ordine pubblico meridionale. La risposta del governo alle
minacce che insidiavano il nuovo Stato fu il regime prefettizio; una scelta
frettolosa e necessaria, imposta da problemi di cui nessuno, nei mesi
precedenti, aveva immaginato la complessità e la grandezza. Il rapido
susseguirsi di due strategie amministrative così profondamente diverse conferma
che l’unità nazionale non fu il risultato di un disegno preordinato.
Nessuno, se non le frange
radicali del movimento garibaldino e mazziniano, aveva immaginato negli anni
precedenti l’improvvisa scomparsa di tutti gli Stati italiani. E nessun
ministro piemontese aveva nei propri cassetti, alla fine del 1860, un dossier
politico-amministrativo sull’unificazione della penisola. L’UNIFICAZIONE: ci ritrovammo uniti fra il Settembre e il
Novembre del 1860 perché gli stati pre-unitari, e in particolare il regno delle
Due Sicilie, si rivelarono
infinitamente più fragili di quanto Torino avesse previsto. Quando fu chiaro
che l’Austria non avrebbe potuto difenderli e che l’Inghilterra, fingendosi
indifferente e neutrale, avrebbe perfidamente incoraggiato la loro morte, essi
crollarono su sé stessi. Il fattore decisivo non fu la pressione esterna degli
«unitari», che furono complessivamente una piccola minoranza. Decisivi furono,
in Sicilia, i vecchi rancori del patriottismo isolano contro la dominazione di
Napoli e, altrove, il rapido dissolversi delle strutture amministrative,
militari e sociali che avevano assicurato l’esistenza degli Stati pre-unitari.
Decisivo, in altre parole, fu l’immediato voltafaccia di una parte delle classi
dirigenti-funzionari dello Stato, militari, liberi professionisti - che corse a
ingrossare le fila del partito risorgimentale. Come spiegare altrimenti i
plebiscitari (1.312.366 contro 10.302 nelle province continentali, 432.053 contro 667 in
Sicilia) con cui i sudditi di Francesco
«chiesero di diventare sudditi di Vittorio
Emanuele»?
Persino in Toscana ed in Emilia,
dove il movimento nazionale poté contare sulla guida autorevole di Ricasoli e Farini, i referendum furono una manifestazione di feudale lealtà
per i leader locali piuttosto che un atto di fede nella monarchia sabauda. Ecco
come Ricasoli, in Toscana, organizzò
la partecipazione popolare al referendum: « (…) gli intendenti agricoli a capo
dei loro amministrati, il più influente proprietario rurale a capo degli uomini
della sua parrocchia, il cittadino più autorevole a capo degli abitanti di una
strada, di un quartiere, ecc. (…) ordineranno e condurranno gli elettori alle
urne della Nazione in gruppi o in file più o meno numerose, ma sempre
disciplinate e procedenti in buon ordine. In testa sarà la bandiera italiana;
ciascuno deporrà nell’urna la propria
scheda, poi si ritirerà e in un
punto determinato il gruppo si scioglierà con quella calma e quella dignità che
proviene dalla coscienza di avere compiuto un alto dovere». Se questi furono i
nuovi battaglioni dell’Italia unitaria, la nuova classe dirigente avrebbe
dovuto rendere rispettoso omaggio, nel momento in cui assumeva la direzione del
nuovo Stato, agli ostinati difensori borbonici di Messina, Civitella del Tronto,
Gaeta, e avrebbe dovuto aggiungerne i nomi al «ruolo degli eroi» di cui
venerare la memoria. Come gli svizzeri alle
Tuileries nel 1792, quegli uomini si batterono perché avevano giurato
fedeltà al loro re e non meritavano l’oblio a cui li ha condannati la leggenda
risorgimentale. Ma nessuno può permettersi il lusso di scrivere una storia che
non tenga conto delle proprie esigenze e non favorisca la realizzazione dei
propri obiettivi. Anziché raccontare l’unità come effetto di circostanze
impreviste e di opportunistiche adesioni, la nuova classe dirigente nazionale
fu costretta a raccontarla come il risultato di un grande sforzo unitario e di
una forte volontà collettiva. Fu taciuto il ruolo delle navi inglesi davanti al
porto di Marsala, furono taciuti l’opportunismo
e il doppiogiochismo delle classi dirigenti locali, fu ignorato o dimenticato l’eroismo
di coloro che tentarono un’ultima difesa contro i piemontesi e i garibaldini.
Proprio perché scaturito da circostanze impreviste, lo Stato unitario ebbe
quindi immediatamente bisogno di una forte ideologia dominante. UN’IDEOLOGIA STRUMENTALE PER “FARE” GLI ITALIANI: l’opera nata per caso
finì per condizionare i suoi involontari creatori e per orientarne la strategia
politica. Per consolidare il proprio potere ed
acquisire legittimità morale, la classe dirigente dovette credere fermamente
nella necessità della propria esistenza e realizzare il mandato di cui si vide
improvvisamente investita. L’ideologia risorgimentale non è quindi l’antefatto
ideale e morale dello Stato unitario. È la somma delle convinzioni, delle
certezze, degli obiettivi e dei metodi con cui la classe dirigente conferisce a
sé stessa il diritto di governare. Improvvisamente proiettata al vertice di uno
Stato imprevisto, essa deve proclamarne la necessità, il fondamento storico, la
missione morale. Ma deve anche realizzare il più rapidamente possibile ciò che
avrebbe dovuto, in buona logica, precedere l’unificazione e giustificarne l’avvento.
Deve «fare gli italiani». Assistiamo così sin dall’inizio a una sorta di
sdoppiamento della ideologia risorgimentale e alla nascita, in seno alla classe
dirigente, di due partiti. Il primo pensa che gli italiani debbano farsi «col
ferro e col fuoco» nel vivo dell’azione, nel crogiolo delle guerre e delle
battaglie. Lo rafforza in questo convincimento il ricordo e lo spettacolo di
altri Stati nazionali europei. Nulla ha giovato alla nascita di una nazione
francese quanto le grandi guerre di espansione e conquiste, da Luigi XIV a Napoleone. Nulla ha «fatto» la Germania quanto la grande insurrezione
antifrancese del 1813 e le due guerre degli anni ‘60. Nulla ha «fatto» la Santa
Madre Russia
quanto Poltava e la «guerra
patriottica» del 1812. Non v’è nazione in Europa che non abbia definito la
propria identità e creato il proprio territorio senza lottare per la propria
esistenza. La riscrittura romantica della storia italiana può servire a
puntellare le pretese della classe dirigente, ma non può sostituire la storia
vera. Lo voglia o no l’Italia ha bisogno, per esistere, di guerre e di sangue. Il
secondo partito non nega l’utilità delle guerre, ma ne valuta più attentamente i costi
e i pericoli. Sa che la guerra del 1859 è stata prevalentemente francese, che
la spedizione di Garibaldi in Sicilia non basta da sola a provare le
virtù guerriere del popolo italiano, che la guerra del 1866 è stata vinta in Boemia, non in Adriatico e nel Veneto.
Sa soprattutto, per diretta esperienza, che le guerre costano molto denaro e
pesano per molto tempo sul bilancio dello Stato. Per «fare gli italiani» occorre quindi tentare una strada diversa, più
graduale, meno rischiosa. Occorre unificare il territorio e le istituzioni,
promuovere l’educazione dei cittadini creare fra essi i vincoli della
convivenza economica e della comunità culturale. Vorrei poter dire che queste
due famiglie dell’ideologia risorgimentale corrispondono alle tradizionali
denominazioni degli schieramenti politici, che la prima è di destra, la seconda
di sinistra. Ma l’affermazione sarebbe del tutto infondata. Durante la prima
generazione unitaria è vero, piuttosto, il contrario: la Sinistra
è volontarista, aggressiva, nazionalista, mentre la Destra
è cauta, poco incline ai colpi di testa e alle avventure militari. Più tardi la
distinzione fra le due famiglie attraverserà in diagonale tutta la società
politica italiana raggruppando in ciascuno dei campi, fianco a fianco,
progressisti e conservatori. Accadrà persino che gli stessi uomini politici - Crispi, Giolitti, Sonnino, persino Mussolini - passino da un campo all’altro
perseguendo strategie diverse in momenti diversi della loro vita politica. Per
semplificare dirò schematicamente che Crispi,
Salandra, Sonnino e Mussolini cercarono
di «fare gli italiani» con la guerra, mentre Spaventa, Sella, Minghetti, Depretis,
Giolitti e altri leader minori cercarono di «fare gli italiani» con le
riforme, le infrastrutture, la scuola, lo sviluppo economico. L’uomo che dette
alla seconda famiglia la sua politica estera più efficace e coerente fu
probabilmente Emilio Visconti di Venosta, sette volte ministro degli
esteri tra il 1863 e il 1901. Accade spesso nella storia che le grandi strategie politiche siano fondate sull’esito,
talora casuale di un episodio. FARE LA GUERRA PER “FARE” GLI ITALIANI: la sconfitta di Adua
ebbe l’effetto di mettere fuori gioco per parecchi anni il partito del «ferro e
fuoco», ma la guerra di Libia, che Giolitti
cercò inutilmente di declassare a «fatalità storica», ebbe quello di estendere
la voglia di sangue e di cimenti che continuava ad agitare gli animi di una
parte delle élite nazionali. Se è assurdo sostenere che la guerra italo - turca
fu tra le cause della prima guerra mondiale, è certamente lecito sostenere che
essa contribuì largamente a creare i quadri interventisti della primavera del
1915. Entrammo quindi in guerra nel maggio di quell’anno, per «fare gli
italiani». Che questo fosse il principale «fine di guerra» dello Stato Italiano
è dimostrato dalla spregiudicata indifferenza con cui le élite nazionali
presero in considerazione le due alleanze possibili. Il governo italiano era
onnivoro, cioè pronto ad espandersi sia verso il Mediterraneo orientale sia
verso il Mediterraneo occidentale, perché la guerra era anzitutto un mezzo per
«forgiare» l’unità nazionale. Per entrare in guerra, tuttavia, una delle
famiglie risorgimentali dovette sbarazzarsi dell’altra con un colpo di mano.
Dopo essere stata una monarchia parlamentare, l’Italia divenne improvvisamente
per qualche settimana, nella primavera del 1915, un Reich tedesco e Salandra
una sorta di cancelliere. Ma non si trattò di colpo di Stato. Lo scontro fu tra
le due famiglie dell’ideologia risorgimentale e il duello fu arbitrato dal Re che buttò il peso della monarchia
nel campo degli interventisti. Il “METODO MUSSOLINI” Mussolini si presentò al re, sin dalla
prima udienza, il 30 Ottobre del 1922, come l’esponente più radicale e
intransigente del volontarismo risorgimentale. Le parole «vi porto l’Italia di Vittorio Veneto», con
cui dichiarò di essersi indirizzato a Vittorio
Emanuele, indicavano che egli avrebbe, per l’appunto, «fatto» gli italiani
col ferro e col fuoco. In realtà, come alcuni dei suoi predecessori, tentò
strade diverse, a seconda delle circostanze, e non esitò a fare in alcuni
momenti, sia pure con linguaggio sprezzante e tracotante, la politica guardinga
della Destra storica. Ma il successo
della guerra etiopica, l’ascesa di Hitler
e la docilità con cui le democrazie accettarono tutti i colpi di mano del Fűhrer, dalla occupazione della Ruhr alla spartizione della Cecoslovacchia, dovettero convincerlo
che le sorti del paese erano a un bivio: buttarsi nella mischia per fare gli
italiani o starsene fuori e rinunciare all’obiettivo. L’idea che l’Italia
potesse restare neutrale non gli passò mai per la testa. Considerata nella
logica del volontarismo risorgimentale l’ipotesi, del resto, era del tutto
irrealistica. I tre maggiori esempi europei - Svizzera, Belgio, Svezia - dimostrano che la neutralità incute rispetto
e produce i risultati desiderati soltanto quando è sostenuta alle spalle da
coesione, fermezza, comunanza di valori e principi, un esercito forte e temuto,
vale a dire tutto ciò che ancora faceva difetto «all’Italia di Vittorio Veneto». Furono queste in gran parte le
ragioni per cui funzionò bene in Svizzera
e Svezia, male in Belgio. Paradossalmente potrebbe dirsi che l’Italia
avrebbe potuto essere neutrale soltanto il giorno in cui qualcuno, finalmente,
avesse fatto gli italiani. UNA GUERRA CIVILE? Sappiamo che cosa
accadde fra il 1940 e il 1943 e sappiamo ormai, grazie al libro di Claudio Pavone, che anche la
storiografia progressista ammette essersi combattuta in Italia dal 1943 al 1945
una guerra civile. L’espressione è particolarmente calzante. Più che di guerra
tra fascisti ed antifascisti si trattò infatti di uno scontro mortale tra le
due famiglie dell’ideologia risorgimentale. Sino a quel momento si erano
combattute in Parlamento, si erano scomunicate a vicenda e una di esse, il
fascismo, aveva perseguitato l’altra con misure di polizia. Ma durante gli
ultimi due anni della seconda guerra mondiale i nipoti del Risorgimento
passarono alle armi e si uccisero. Fu questo l’aspetto più tragico di quella
vicenda: il Risorgimento diviso in due campi contrapposti, un’Italia non ancora
fatta e già lacerata da un insanabile contrasto fra due rami di una stessa
famiglia. La vittima più illustre di questa lotta intestina fu l’uomo che ne
comprese meglio di altri il carattere «familiare» e che fece il possibile per
interporsi fra i combattenti. Giovanni
Gentile fu certamente ucciso dai gappisti di Firenze davanti alla sua villa
del Salviatino, ma avrebbe potuto
cadere sotto i colpi del fascismo radicale. Così muore Antigone quando cerca di contrapporre le leggi della pietà a quelle
della forza. Vinse come sappiamo la «Famiglia» risorgimentale che voleva fare
gli italiani con l’educazione civile e con il progresso economico. Per le
condizioni in cui si era combattuto un paese sconfitto e diviso dopo una lunga
dittatura, gli orrori di una guerra mondiale, una lotta spietata fra nemici
«terminali» - la guerra fu necessariamente un fratricidio e amputò l’ideologia
risorgimentale di un suo membro. Non basta. Quella del partito risorgimentale
vincente fu una vittoria di Pirro
perché il campo dei vincitori fu dominato durante la lotta da due forze - i
comunisti e in misura minore, i cattolici – che non appartenevano alla tradizione del Risorgimento e avevano altri ricordi, altri obiettivi.
Si delinea così sin dall’inizio dello Stato repubblicano un contrasto tra
coloro che vorrebbero tenere viva l’idea del Risorgimento e coloro che
vorrebbero - esplicitamente i comunisti, implicitamente i cattolici negarne il
valore morale, svelarne le ipocrisie, sottolinearne i fallimenti e cancellarne
il ricordo. Al centro del dibattito fu spesso la Resistenza che i «Risorgimentisti» Saragat, ad esempio - cercarono di accreditare come ultima «guerra
d’indipendenza» e che i comunisti esaltarono invece come lotta di liberazione
sociale, insurrezione di popolo, promessa di rivoluzione. A chi vorrà fare la
storia dell’idea di Risorgimento durante la prima generazione dello Stato repubblicano
propongo alcuni temi di ricerca: i manuali di storia nelle scuole, le
discussioni provocate dal libro di Rosario
Romeo su Risorgimento e capitalismo e da quello di Mack Smith sulla storia d’Italia, i discorsi presidenziali di Saragat, la graduale scomparsa del 20
Settembre dagli annali delle feste nazionali e infine, il dibattito sull’europeismo.
L’EUROPEISMO:
l’europeismo fu infatti, negli anni immediatamente
successivi alla seconda guerra mondiale, la preoccupazione dominante di coloro
che erano maggiormente consapevoli della precarietà dell’ideologia
risorgimentale. Einaudi fu tra i
primi a rendersi conto che la guerra perduta colpiva a morte non soltanto il
partito «del ferro e del fuoco», ma l’intero Stato nazionale. Sin dall’esilio
in Svizzera giunse alla conclusione che l’Italia aveva bisogno per sopravvivere di una nuova
ideologia e che soltanto «l’idea d’Europa»
come Chabod intitolò in quei mesi le
sue lezioni di Milano, poteva dare un senso all’esistenza del paese sconfitto.
Fu questa la ragione per cui, contrariamente a Croce, accettò senza esitare la ratifica del trattato di pace: per
liquidare un passato fallimentare ed evitare che il paese si attardasse
inutilmente nella contemplazione delle proprie frustrazioni. Credo che le
ricerche degli storici futuri sul crepuscolo del Risorgimento dovranno concludersi
con la fine degli anni ‘60. Da quel momento in poi lo studioso troverà
probabilmente sulla sua strada temi più modesti: il socialismo tricolore, il
culto garibaldino e i pellegrinaggi a Caprera
di Bettino Craxi, la pietà
risorgimentale di Giovanni Spadolini,
le stanche discussioni provocate dalle invettive antirisorgimentali di Vittorio Messori e del cardinale Biffi. LA MORTE DELL’IDEOLOGIA RISORGIMENTALE: l’agonia dell’ideologia risorgimentale si protrae nel tempo, ma a chi
esige, per periodizzare la storia degli italiani, una data di morte propongo il
1976. L’anno in cui il 73,1% degli italiani dà il proprio voto alla Democrazia Cristiana e al Partito Comunista se si deducono dal resto i voti di Democrazia Proletaria, della Sűdtiroler
Volkspartei e della Union
Valdotaine, alle due vecchie famiglie dell’ideologia risorgimentale rimane
il 24,9%, di cui il 6% al Movimento Sociale Italiano e il resto diviso fra socialisti,
socialdemocratici, liberali, repubblicani e radicali. Nell’anno in cui Giulio Andreotti diventa presidente del
Consiglio, Amintore Fanfani
presidente del Senato e Pietro Ingrao
presidente della Camera, gli italiani risorgimentali sono ormai minoranza e
vivono nel loro paese in una condizione intellettuale analoga a quella che
caratterizzava gli orleanisti e i bonapartisti dopo l’avvento della Terza Repubblica. Si potrebbe
naturalmente sostenere che l’emergenza di forze nuove non comporta necessariamente la
fine degli ideali risorgimentali. Perché non riconoscere che il partito
comunista e la Democrazia Cristiana
hanno accettato il retaggio del Risorgimento e tentato di «fare gli italiani»?
Perché non riconoscere che i cattolici furono sin dall’inizio
fervidamente europeisti e che i comunisti divennero tali nella prima metà degli
anni 70? Non avevano gli stessi ricordi e le stesse tradizioni, ma si proposero
di realizzare, con la solidarietà, la giustizia sociale e l’Europa, ciò che i
partiti risorgimentali non erano riusciti a compiere nelle generazioni
precedenti.
La Cassa
del Mezzogiorno e gli insediamenti industriali nelle province meridionali
furono certamente un tentativo per unificare il paese dando agli italiani
eguali possibilità di lavoro, di educazione e di promozione sociale. Ma lo
sciagurato risultato di quella politica è sotto i nostri occhi. Il giudizio
sulle responsabilità spetta agli storici del futuro, ma non è necessario
attendere il loro responso per constatare che la prassi della democrazia
consociativa - risorse contro consenso, favori contro voti - ha accentuato le
differenze tra le diverse parti della penisola e che la strategia della Cassa
del Mezzogiorno è complessivamente fallita. In un momento in cui una parte del
territorio nazionale ancora sfugge al controllo giudiziario, poliziesco e fiscale
dello Stato unitario, la distanza fra il sud e il nord è più forte,
paradossalmente, di quanto non fosse all’epoca in cui l’Italia era, come scrisse Croce, «divisa in due». Gli anni felici tra il 1850 e il 1860,
quando gli intellettuali napoletani e siciliani, lavoravano fraternamente a
Torino con i loro amici piemontesi, liguri, lombardi e veneti per preparare un
futuro comune, ci appaiono terribilmente lontani. Occorre risalire alla guerra
contro il brigantaggio, ai moti di Palermo del settembre 1866 e ai fasci
siciliani per ritrovare l’estraneità che caratterizza oggi i rapporti fra le
due parti della penisola. L’ESTRANEITÀ FRA
NORD E SUD: questo fenomeno è andato accentuandosi col passare del tempo, ma può
farsi risalire, simbolicamente, a due catastrofi naturali: il terremoto in
Friuli del 1976 e quello nelle province meridionali del 1980. Se le elezioni
nazionali del 1976 registrarono il brusco declino delle forze politiche
risorgimentali, i quattro anni che corrono fra i due terremoti segnano nella
vicenda dell’Italia unitaria l’inizio del processo di scissione morale fra le due parti
della penisola. Per la prima volta gli italiani videro «in diretta», grazie
alla televisione, gli effetti in diverse regioni di uno stesso avvenimento
naturale: al nord una regione ansiosa di riparare i guasti e ricominciare a
lavorare, al sud la macchina perversa di un assistenzialismo senza progetti e
prospettive. Non basta. Quei due avvenimenti produssero, sotto gli occhi degli
italiani, conseguenze radicalmente diverse; in Friuli un processo
modernizzatore che ne ha fatto in pochi anni una delle più intraprendenti
regioni mitteleuropee; nelle province meridionali un processo di
criminalizzazione che ha sottratto una larga parte della penisola all’impero
della legge. Gli stessi denari che hanno permesso al Friuli di costruire nuove
infrastrutture e nuove imprese hanno creato in Campania, nella migliore delle
ipotesi, opere fittizie, nella peggiore una vasta rete di «intermediari» che ha
barattato il denaro dello Stato contro i voti delle clientele elettorali. Alla
spaccatura orizzontale fra le regioni settentrionali e meridionali si aggiunge
un’altra spaccatura, non meno pericolosa. Il fallimento dell’ideologia
risorgimentale nella sua duplice versione militare e civile ha trasformato l’Italia
in uno Stato senza fondamenta etico - politiche. UN NEO-CORPORATIVISMO: questo non significa che la sua unità sia in forse; gli
interessi comuni prevalgono sulle divergenze. Significa tuttavia che il paese è
progressivamente divenuto nel corso di questi ultimi anni una costellazione di
grandi corporazioni tribali o professionali, ciascuna delle quali è
preoccupata, anzitutto, dalle proprie prerogative e dalla propria autotutela: i
giudici, la Banca
d’Italia, i
giornalisti, le forze dell’ordine, la
Commissione episcopale e le organizzazioni che ne dipendono,
le Forze Armate, le nomenklature
accademiche, gli apparati burocratici dei partiti e dei sindacati, le clientele
della criminalità organizzata e giù sino alle corporazioni minori dei
commercianti, dei farmacisti, degli edicolanti, dei tabaccai, dei tassisti. Non
tutte le corporazioni hanno la stessa rilevanza. La loro compattezza e coesione
di pende dal livello di partecipazione. La corporazione è forte quando il socio
si identifica totalmente con essa e trae grandi benefici dalla sua tutela. È
debole quando l’identificazione dipende da occasionali interessi di
categoria o il socio, per ragioni personali o familiari, divide la propria
lealtà fra corporazioni diverse. Ma è la corporazione-tribù ormai la vera
patria degli italiani, l’istituzione attraverso la quale essi trattano con lo Stato.
Non esistono più cerimonie pubbliche, in Italia, in cui la comunità nazionale
celebra se stessa. Esistono cerimonie corporative in cui la corporazione
celebra il diritto di auto elogiarsi e a cui lo Stato rende omaggio con la
propria presenza. Si va all’Altare della Patria il 4 Novembre per compiacere la
corporazione delle Forze Armate, si va all’inaugurazione dell’anno Giudiziario per compiacere i
magistrati, si mandano telegrammi ai meeting di Comunione e Liberazione per rendere omaggio a una particolare tribù
della famiglia cattolica, si è votato il lunedì 28 marzo 1994 (e non soltanto
domenica 27) per compiacere la nomenklatura dell’ebraismo italiano a cui non era
permesso, in linea di principio, votare nel giorno di una propria festività
religiosa. La fine dell’ideologia non comporta necessariamente la fine dei riti
risorgimentali. Gli uomini politici continueranno a salire i gradini del
monumento a Vittorio Emanuele, a
deporre corone d’alloro, a visitare gli ossari della prima guerra mondiale e
quello di El Alamein, a celebrare
ricorrenze dimenticate, a commemorare martiri di cui nessuno ricorda più di
quando e perché siano morti. Così fece Giuliano
l’Apostata negli anni in cui i suoi connazionali avevano già smesso
di credere agli dei dell’Olimpo. Il vuoto ideologico post-risorgimentale L’establishment
politico-amministrativo continuerà a parlare il linguaggio del Risorgimento
anche per nascondere il vuoto ideologico della repubblica. Ma è difficile
immaginare che il nuovo Stato italiano possa costituirsi sulla base di ideali
così duramente provati dalla realtà storica e così fortemente minoritari.
Nascerà, se i suoi cittadini non riusciranno a dargli un’anima nuova, sulla
base di un pragmatico patto di convivenza fra popoli che parlano la stessa
lingua, vedono la stessa televisione, partecipano allo stesso campionato di
calcio e hanno un evidente interesse a non pregiudicare, con gesti avventati o
decisioni emotive, le prospettive della loro comune prosperità. La storia dell’Italia
risorgimentale si è conclusa. Quella degli anni ‘80 e della crisi presente
appartiene ad un libro nuovo che potremmo chiamare, per meglio marcare, la
cesura col passato, “dell’Italia post – risorgimentale” .
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