Ordini Cavallereschi Crucesignati

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lunedì 10 marzo 2008

AMANTEA: UN ASSEDIO DIMENTICATO

di Gaetano Marabello-Comitato Scintifico

Quando il 27 dicembre 1805 Napoleone Bonaparte, da quel perfetto guerrafondaio che fu, annunziò che la dinastia dei Borbone di Napoli era “incompatibile con la pace dell’Europa”, aveva già pronti i suoi generali per la progettata invasione del Mezzogiorno d’Italia che doveva assicurare un regno al fratello Giuseppe. Naturalmente le collaudatissime Armate di Massena riuscirono a dilagare in poco tempo sino allo stretto antistante la Sicilia, dove s’era ritirato intanto Ferdinando IV con la famiglia. Sul continente restavano solo alcune sacche di resistenza, una delle quali faceva capo ad Amantea, centro che contava poche centinaia di anime. Oggi può apparire persino incredibile che una cittadina tanto piccola abbia saputo prolungare la resistenza ben oltre il limite, consentito dalle modeste opere poliorcetiche costruite a sua difesa. E si stenta quasi a credere che quella che fu sprezzantemente definita una bicoque (bicocca) da Auguste Bigarre, aiutante di campo del suddetto fratello dell’imperatore, sia caduta solamente dopo la resa delle ben più munite fortezze di Gaeta e Civitella del Tronto. Di sicuro l’inopinata sua resistenza fu capace di mandare in bestia i transalpini. La stizza traspare evidente dalle Memoires di Edouard Gachot, imitato in parte da Jacques Rambaud che tentò di ridurne l’epopea a “semplice episodio”, tirando addirittura in ballo l’attenuante della “scarsa efficienza dei mezzi posti in opera dagli assedianti”. Eppure ben altro giudizio aveva espresso il generale Griois, che comandò alla fine del 1806 l’artiglieria di stanza contro Amantea. Egli riconobbe che ad un’eccedenza dei mezzi frances, sistemati in gran numero sulle alture, la città poteva opporre solo “un semplice muro di cinta con un solo bastione… che si prolungava fino al mare”. La sua onestà lo spinse perciò a rendere doverososamente omaggio ai difensori, per la “volontà determinata ed il patriottismo” dimostrati. E a denti stretti pure Rambaud dovette ammettere che quella “energica difesa” degli amanteoti costituì “uno dei più bei serti della loro corona di gloria”. Può quindi affermarsi che vide giusto il calabrese Nicola Misasi quando, all’inizio del XX secolo, paragonò la difesa di Amantea a quella celeberrima di Saragozza, che qualche anno dopo seppe opporsi con altrettanto valore sempre ai francesi. “Perché – si chiedeva allora il romanziere – nessun torto si fece agli Spagnoli del pugnare sotto il vessillo borbonico, come sotto il vessillo borbonico pugnarono i calabresi a Sant’Eufemia e ad Amantea? Perché eroi gli uni e briganti gli altri?”. Parole sacrosante. Come sacrosanto ci pare anche il suo richiamo al fatto che “l’unità d’Italia si farà solo quando ognuno metterà del suo quello che ha nella storia comune”, ponendo una buona volta fine al malvezzo nostrano di offendere sempre le ragioni dei vinti delle guerre civili. E sull’assedio di Amantea gli dette ampia ragione una fonte insospettabile come il colonnello Giuseppe Ferrari, comandante dell’Ufficio storico del Corpo di Stato Maggiore dell’Esercito, che l’8 aprile 1911 dedicò alla vicenda una monografia rimasta ad oggi insuperata per imparzialità e serietà di studi.
In pratica, l’epopea della cittadina iniziò con la vittoriosa sortita, fatta all’inizio di luglio del 1806 dalla flotta anglo-napolitana nel golfo di Sant’Eufemia e culminata nella battaglia di Maida di cui ci siamo occupati su queste colonne in occasione del suo bicentenario. Alcune fregate del convoglio sbarcarono un gruppo di volontari borbonici ad Amantea, subito evacuata dai polacchi del contingente francese che la presidiavano. L’arrivo di capi massa del calibro di Necco di Scalea e Michele Pezza di Itri (Fra Diavolo), che recavano gli aiuti sperati, ebbe l’effetto di portare alle stelle il morale della gente. Venne eletto governatore un patrizio locale, peraltro gradito pure alle corti di Napoli e di Londra, Rodolfo Mirabelli. Parente di un Alessandro Mirabelli, fucilato senza processo poco tempo prima dagli invasori, egli come primo atto di governo volle premiare ogni calabrese che si era distinto combattendo i polacchi in ritirata. Seguì un periodo di relativa calma, durante il quale fu consumata qualche inevitabile rappresaglia nei confronti dei collaborazionisti ad opera degli elementi più violenti scesi in città. Divenuta il fulcro delle insorgenze antifrancesi di quel versante tirrenico, Amantea fu fatta subito oggetto di alcune puntate esplorative del generale Vernier che voleva saggiarne le capacità di reazione. Tornati successivamente in forze, i soldati napoleonici iniziarono le ostilità dopo aver insediato la loro artiglieria sulle alture, per battere meglio le mura, e aver messo un presidio sulla spiaggia, per bloccare i rifornimenti via mare. Tutti gli abitanti collaborarono eroicamente alla difesa, come dimostra l’episodio di Elisabetta Noto che con le sue grida d’allarme sventò un assalto notturno che fu fortunatamente respinto. Visto che non riuscivano a spuntarla nei ripetuti assalti i francesi fecero confluire altre truppe, ma inutilmente. Purtroppo, alla stregua di tutti gli assedi, il trascorrere del tempo giocava contro i difensori. Infatti, come rilevò nel 1984 Ulderico Nisticò nella sua Storia delle Calabrie, “la sola debolezza di Amantea era la penuria dei viveri”. Sintomatico al riguardo è un altro episodio che vide un certo Francesco Secreto detto Gal-gal tuffarsi in mare – si era nel pieno del mese di gennaio! – nella speranza d’ottenere aiuti dalla flotta inglese che veleggiava al largo, ma che invece non si mosse. Tra attacchi e contrattacchi trascorsero altre lunghe settimane, durante le quali i genieri francesi riuscirono a scavare una galleria fino ad uno dei baluardi, dove piazzarono un’enorme mina. Il 5 febbraio 1806 una tremenda esplosione aprì una spaventosa breccia, attraverso la quale gli assedianti dilagarono nella città. La furiosa battaglia, che s’accese tra le macerie anche a colpi di pietre, si concluse il giorno dopo con l’inevitabile atto di resa. Mentre al Mirabelli fu concesso di trasferirsi con la famiglia in Sicilia, non si usarono riguardi per chi venne ritenuto un brigante. Perciò, con questa sbrigativa accusa moltissimi difensori finirono fucilati senza pietà. Secondo un copione già visto a Lauria, “rea” di un’altra stoica resistenza il 7 agosto precedente, anche Amantea venne punita con la perdita delle prerogative di capo-circondario a favore della vicina Paola. In cambio, però, si guadagnò l’ammirazione di Guglielmo Pepe, che aveva scelto di militare tra le schiere degli invasori transalpini. Egli lasciò scritto d’aver assistito a veri “prodigi di valore” compiuti da quei compatrioti che pure aveva tradito. E, avendo constatato che essi erano asserragliati in una “debole cerchia di mura”e che queste ultime erano difese a loro volta da appena quattro cannoni fatiscenti, giunse ad ammettere d’aver provato tutta la vergogna di stare a “combattere nelle fila dello straniero”. Insomma, il classico pianto del coccodrillo…

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