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giovedì 19 marzo 2009

SENATORE LUIGI D'AMBROSIO LETTIERI

Legislatura 16º - Aula - Resoconto stenografico della seduta n. 176 del 19/03/2009
SENATO DELLA REPUBBLICA------ XVI LEGISLATURA ------
176a SEDUTA PUBBLICA
RESOCONTO
SOMMARIO E STENOGRAFICO

GIOVEDÌ 19 MARZO 2009
(Antimeridiana)
_________________

Presidenza della vice presidente MAURO,
indi del presidente SCHIFANI
(stralcio)

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore D'Ambrosio Lettieri. Ne ha facoltà.

D'AMBROSIO LETTIERI (PdL). Signor Presidente, signori del Governo, onorevoli colleghi, credo sia giusto ricordare, anche se è stato già fatto, che la questione del cosiddetto testamento biologico e delle tematiche ad esso collegate non è di oggi. Essa è infatti all'ordine del giorno del dibattito politico da trent'anni, da quando nel 1976 il caso Quinlan, come ha ricordato lo stesso professor Veronesi, prima scosse l'opinione pubblica statunitense e poi rimbalzò in tutti i Paesi avanzati, dove i crescenti progressi delle conoscenze tecnico-scientifiche avevano già prodotto interrogativi tali da mettere a soqquadro le convinzioni e dilaniare le coscienze.
Questa notazione è la dimostrazione di quanto laceranti, difficili, drammatici per la coscienza di ciascuno e al di là degli schieramenti di parte, siano gli argomenti che come questo aprono problemi etici di complessità incredibile. Non è davvero un caso, credo, che tre decenni non siano bastati ai legislatori che si sono succeduti in questa e nell'altra Aula del nostro Parlamento per iscrivere la materia in un quadro di regole certe e condivise, perché molto semplicemente si tratta di una materia difficile, di una materia delicata che, complice il processo ipertecnologico di crescita della nostra medicina, apre dilemmi fin qui estranei al percorso umano.
Credo di esprimere un pensiero che in quest'Aula sia stato largamente condiviso se affermo che l'accelerazione dell'iter legislativo del provvedimento in esame sia stato prodotto dalla controversa e drammatica conclusione del caso Englaro, che ha trovato la risposta ai dilemmi, agli interrogativi, alle istanze, alle richieste che prima ricordavo in una sentenza della magistratura; laddove questa è intervenuta evidenziando che non poteva farsi diversamente, atteso che vi era un vulnus legislativo, al quale peraltro la magistratura stessa chiedeva di porre rimedio. Un fatto grave, questo, che non sia l'organo sovrano espressione della volontà popolare a dare un'indicazione e una risposta, ma sia un altro potere costituito della nostra democrazia. Questo riferimento è utile ad inquadrare la cornice di oggettiva difficoltà dentro la quale dobbiamo provare a ragionare (e sottolineo provare a ragionare), rifuggendo dalle tentazioni di radicalizzare il confronto e di ingessarlo nei presunti dogmatismi di opposte e non conciliabili verità.
Sono sempre stato convinto fin dall'inizio dei lavori in Commissione sul testo del senatore Calabrò (al quale voglio indirizzare in questa sede, una volta di più e con grande affetto un pubblico attestato di stima e un sincero ringraziamento per l'onestà intellettuale e l'umiltà tenace con la quale ha portato avanti questo provvedimento), che il punto centrale della delicatissima questione che ancora discutiamo sia tutto nella risposta ad un'unica domanda: fino a che punto la vita di una persona può essere considerata un bene disponibile?
Un interrogativo che è andato ben oltre l'iniziale tema che lo aveva generato, caro collega Marino, relativo al fatto se l'alimentazione e l'idratazione fossero sostentamento vitale o trattamento sanitario e come tale dunque configurabile come accanimento terapeutico.
E' infatti sulla vita come bene disponibile che si registra la divaricazione tra chi ritiene che ciascuno, in nome del sacro ed inviolabile principio di libertà, possa fare della sua vita ciò che più e meglio ritiene e chi al contrario ritiene che la libertà assoluta di disporre di sé sia costitutivamente in antitesi con i princìpi e le regole del vivere civile e sociale e quindi non ammissibile. Come è evidente si tratta di posizioni inconciliabili, espressioni di concezioni, sensibilità e culture profondamente diverse dei valori fondanti dell'esistenza.
Dirò subito, per chiarezza, che sono tra coloro che ritengono che la vita sia un bene indisponibile e non negoziabile. Aggiungerò anche che avverto un po' di disagio quando, anziché confrontarci su argomenti opponendo posizione a posizione, vi è chi considera pregiudizialmente la mia convinzione come frutto di un dogmatismo confessionale e fideistico. A ben vedere, è proprio questo l'atteggiamento che rende più difficile il dialogo: il rifiuto di molti a prendere in considerazione, con la serenità che sarebbe invece necessaria, il fatto che il principio della indisponibilità della vita non è sostenuto solo da argomenti teologico-confessionali, ma anche da forti e ben radicati argomenti laico-razionali.
Vi è che come il professor Francesco D'Agostino, presidente onorario della Commissione nazionale di bioetica - ma vi sono accanto a lui illustri presidenti emeriti della Corte costituzionale - si è speso molto per affermare questa verità, spiegando - direi autorevolmente - come quello della indisponibilità della vita sia con buona pace dei laicisti un principio aristotelico ancor prima che cristiano, ricordandoci che la stessa verità è stata poi variamente ribadita da giganti del pensiero della statura di Kant o di Schopenhauer (sì, anche lui, il nichilista Schopenhauer!), entrambi concordi nell'affermare che la vita non è bene di cui il singolo possa disporre a suo piacimento, anche se sulla base di considerazioni del tutto diverse e per non dire singolarmente opposte.
È però all'Aristotele dell'Etica Nicomachea che bisogna riferirsi per significare come il concetto della indisponibilità della vita sia assolutamente precristiano. Il filosofo argomentava contro il suicidio, sostenendo che l'individuo appartiene alla polis e non ha dunque il diritto di privarla della sua presenza e della sua attività. Il professor D'Agostino non parla ovviamente né di polis né di Patria, né di Stato, ma osserva che ognuno di noi vive all'interno di una rete di relazioni interpersonali. Quindi, sostiene il bioeticista - che cito alla lettera - «chi ritiene di avere il diritto di poter disporre della propria vita arriva di fatto a disporre - magari senza rendersene conto - di tutta la rete di relazioni interpersonali (che sono familiari, amicali, lavorative, politiche, sociali), al cui interno si è formato come persona e che hanno contribuito a costituire e costruire la sua identità. Uscendo da questo mondo e ritenendo di averne il diritto, egli si comporta ingiustamente con tutti coloro che hanno interagito nel passato e che potrebbero in futuro ancora interagire con lui, che cioè hanno messo, o comunque potrebbero aver messo a disposizione sua il proprio patrimonio di esperienze».
In questa interdipendenza di individui, che è l'elemento irrinunciabile e fondante dell'esperienza umana e della stessa idea di società, risiede dunque il nocciolo della questione.
Non apparteniamo solo a noi stessi ma anche alla rete di relazioni interpersonali che ha fatto e fa di noi quel che siamo. Ritenere disponibile dunque la vita umana significa infliggere un vulnus fatale alla possibilità stessa della dimensione sociale, per la quale la vita non è soltanto un valore accanto ad altri valori ma è il presupposto della stessa elaborazione sociale di ogni valore. Ecco perché il principio dell'indisponibilità della vita non è negoziabile, perché se lo discutessimo mineremmo le pietre d'angolo su cui appoggiano le fondamenta del nostro modello di civiltà, con conseguenze incalcolabili per il futuro.
E a tutti coloro che arrivando talvolta a promuovere, sotto le spoglie suadenti della pietas, la causa del diritto a disporre della propria esistenza, aprendo così la porta ad una deriva nichilista, gioverà ricordare che se questa civiltà, della quale siamo al tempo stesso eredi e artefici, è stata possibile è esclusivamente sulla base dell'affermazione di questo principio: se avesse prevalso, al contrario, il concetto della vita come bene disponibile, forse saremmo ancora dalle parti della Rupe Tarpea. Su questo punto fondamentale non mi è sembrato di registrare, a meno di colpevoli distrazioni, controargomentazioni convincenti condotte in punta di ragionamento; eppure, torno a dirlo, proprio su questo punto nodale dell'intera questione si svolge il ragionamento. Se infatti attraverso un confronto aperto, sereno e maturo arrivassimo a condividere la convinzione, tutta laica, razionale e soprattutto fondata sull'irrinunciabile dimensione sociale del nostro essere persone, in ordine all'indisponibilità della vita, credo che al provvedimento che oggi stiamo discutendo in Aula si aprirebbe una strada in discesa.
Il lavoro in Commissione ha dato ampia prova del fatto che esistono margini per arrivare ad una legge formulata con il contributo, anche necessario, di culture e sensibilità differenti. Lo ha ribadito il senatore Calabrò, con specifico riferimento ad alcuni aspetti critici che sono stati utilmente dibattuti, analizzati e migliorati, e lo ha confermato, con un'onestà intellettuale che è tutta da apprezzare, il senatore Gustavino, riconoscendo che il testo della legge è uscito dalla Commissione migliore di come vi era entrato.
Mi avvio alla conclusione, signora Presidente, chiedendo un ultimo minuto. Voglio coltivare l'auspicio che questa discussione generale, per questa volta e per questa specialissima occasione, si sottragga alle logiche dei discorsi fatti per lasciare traccia nei resoconti; che questa Aula torni ad essere, come siamo in tanti ad auspicare, come emerso nell'interessante dibattito sulle riforme che abbiamo svolto ieri, il luogo dove non solo si approvano le leggi ma dove si forma e si costruisce il pensiero che le origina.
Eppure non può prendersi atto delle oggettive difficoltà a trovare le necessarie convergenze, attese le dichiarazioni tanto amare quanto vere della vice presidente Bonino, quando afferma che a dividerci nella sostanza è una diversa lettura dell'articolo 32 della Costituzione. Ragionando ai bordi di questo solco, dunque, potrà forse anche essere vero che in democrazia - mi rivolgo soprattutto alla illustre collega Bonino - i numeri non sempre coincidono con il diritto, ma è ancora più vero che dietro la forza dei numeri in questa occasione c'è anche la forza dei princìpi, dei valori, delle convinzioni e anche dei ragionamenti svolti con la massima apertura al confronto con le ragioni altrui. Non c'è una logica muscolare dietro e dentro il testo di questa legge, ma la traduzione, anche difficile e sofferta in alcuni momenti, di un lungo percorso di impegno, di riflessione e confronto. Questo ritengo giusto ricordarlo, con serenità, con pacatezza e con grande convinzione, assumendo la responsabilità, non solo etica, del mio sostegno alla legge. (Applausi dal Gruppo PdL e del senatore Fosson).

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