Questo sito è a disposizione di tutti coloro che intendono inviare i loro pezzi, che dovranno essere firmati, articoli sulle gesta della Cavalleria Antica e Moderna, articoli di interesse Sociale, di Medicina,di Religione e delle Forze Armate in generale. Il sottoscritto si riserva il diritto di non pubblicare sul Blog quanto contrario alla morale ed al buon gusto. La collaborazione dei lettori è cosa gradita ed avviene a titolo volontario e gratuito, per entrambi.
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mercoledì 28 aprile 2010
I RACCONTI DI CLARA TERRIBILE
Ho sognato di precipitare, mamma! Un volo interminabile in un antro buio e stretto, come se qualcuno mi avesse spinto nuovamente nelle viscere oscure dove dormivo prima di quel mattino di dicembre, mentre tu gridavi di dolore. Ma non è il limbo del tuo ventre caldo e il tuo respiro era il mio respiro. Qui mi sento soffocare, l’aria è quella di un sottobosco di foglie putrefatte, e di muffa. Un abisso di solitudine dove aspetto che tu pronunci il mio nome, per riaprire gli occhi davanti ad un sorriso. Ti prego, vieni a svegliarmi prima che sia troppo tardi. Non senti che ho paura? Fa’ presto che domattina devo andare a scuola. Mi terrai per mano come andassi all’asilo e la gente di norma distratta, ci saluterà contenta vedendoci ancora insieme all’alba d’un altro giorno. Inventerò una scusa per la mia assenza e non dirò a nessuno di questo batticuore, del respiro che si ferma in gola, del tremore che mi blocca. Solo tu conosci le pieghe di qualche mia fragilità, la ragione dei miei silenzi, ma non hai mai sospettato il pianto muto delle notti insonni da quando hai smesso di cullarmi e la quiete del nostro stare insieme è andata a dimorare lontano, al suo posto un mostro inquieto che s’aggirava per la casa portando tensioni, grida, complice l’ignoranza.
I miei ricordi prima dello scompiglio si fermano sul tuo volto senza vezzi di contadina del Sud, sulle tue labbra scarne, sui capelli spettinati e gli occhi arrossati da un dolore abituale, sulle poche parole pescate da un vocabolario limitato. Eppure dal tuo petto saliva il conforto d’una comunione intima, il calore del mio stesso sangue. Nonostante i silenzi, le inquietudini che percepivo nel fondo del tuo sguardo, ti trovavo speciale, l’unica madre che mi fosse destinata e pensavo che nulla di peggio potesse accaderci dopo quanto ci aveva già castigati. Ho imparato troppo presto che l’infanzia non è mai perfetta, c’è sempre qualcosa che manca, o qualcuno come nella mia. Il senso di solitudine che sentivo intorno mi ha sempre inquietato. Ci divideva un muro dietro il quale si nascondeva un mostro taciturno che, da un momento all’altro, sarebbe saltato fuori per sparpagliare le nostre vite. Mi assentavo per paura che il rumore della mia presenza frangesse quel muro dietro il quale, ero certo, se ne nascondeva un altro più grande. A volte mi veniva d’istinto gridare a squarciagola, ma restavo muto perché se mi fossi mosso saremmo sprofondati sotto le sue macerie. Sentivo che nella nostra vita mancava la cosa più importante. L’ignoranza detta regole mai scritte nel libro della morale, crea mostri paurosi che gridano, bestemmiano e hanno negli occhi il sangue di una bestia affamata di rancori. Ma dove sei che non ti sento? Perché mi lasci solo? Da troppo tempo non vieni a svegliarmi la mattina. Da troppo tempo te ne stai lontana senza domandarti se mangio, se sono cresciuto, quale aria respiro in questo vuoto di esistenza e come mi muovo nello stretto della mia nuova vita.
E’ stato un lampo … Ho sentito l’eco delle mie urla rimbombare sulle pareti; poi, uno schiocco secco. Ho riaperto gli occhi sul buio dentro cui annaspo come un cieco senza appigli. Sono davvero in fondo ad una buca, col puzzo di muffa, di detriti bagnati e di urina tra i calzoni. Un dolore acuto mi avvampa il viso e mi arriva al naso l’odore acre del sangue, come se il mio corpo fosse una ferita aperta e tremo di paura. D’improvviso, un fiato affannato mi sorprende. Mi alzo sui gomiti e lo vedo. Mio fratello riverso su un fianco, ha gli occhi chiusi e sussulta. Mi trascino verso di lui, lo scuoto. Lui muove le labbra in un borbottio, ma vorrebbe gridare. Nei suoi occhi spalancati vedo il luccichio del terrore. Comincia a piangere e tra i singhiozzi mi dice che ha male al piede. Ci stringiamo e i nostri petti battono all’unisono il terrore. Gli metto un braccio sotto il collo e lo consolo: “Stai tranquillo, ci sono io con te. Tra poco verrà qualcuno che ci tirerà fuori”. Sono il più grande, lui s’aspetta da me una soluzione, è sicuro che troverò il modo per uscire da quest’incubo. Ma chi rassicura me in questo vuoto di tutto? Non so se riuscirò a restare calmo, a tacergli quel che penso. Che non usciremo mai da questo buco. Che nessuno là fuori si cura di noi, nessuno sentirà le nostre grida. Ma non lascio che lui veda la mia disperazione. Si acquieta e zoppicando va verso il muro, si aggrappa con le unghie alla parete per tentare di risalire, ma scivola nuovamente a terra. Gattona verso di me, la bocca aperta non riesce a dirmi quel che prova. Nei miei occhi cerca l’infanzia che abbiamo condiviso e che non è mai stata felice, ma tutta l’infelicità passata è poca cosa al pari di questa disperazione. Forse è la nostra prima vera intimità. Il legame fraterno più profondo che non abbiamo avuto modo di esplorare per intero, è tutto in quello sguardo. Tento di alzarmi, ma un lampo mi acceca e si spezzetta in miriadi di scintille, come lucciole sospese nell’aria. La testa mi gira, lo stomaco s’accende come se il sangue fluisse tutto insieme nel ventre. I calzoni bagnati sono incollati alle gambe come una seconda pelle e il puzzo dell’urina mi dà la nausea. Cerco di non farmi prendere dal panico. Mi raggomitolo su me stesso, le mani tra le gambe per consolarmi, ma non percepisco la distanza tra i piedi e la testa che mi sembra staccata dal resto del corpo, come appartenessero a due mondi separati. Quello di là fuori fatto di corse per le strade, di sogni, ma anche di ostinazione e facce serie, di grida affollate di segreti. Questo, immobile, colmo di silenzi dentro cui i pensieri si aggrovigliano in un susseguirsi di ricordi, di attese.
Non so misurare il tempo trascorso dai giochi alla fontana a quest’incubo. Forse sono soltanto poche ore, minuti, ma sembra passato un secolo. Il tempo dei bambini non è uguale a quello degli adulti. Il tempo dei bambini è dilatato, popolato di orchi e di fate, di credi e di illusioni. Quello degli adulti si perde ancor prima di essere vissuto e, tra rimpianti, egoismi, rancori, corre talmente veloce che basta solo per un giorno. Ho voglia di abbandonarmi al nulla, morire in questo vuoto di affetti, lasciare marcire insieme al mio corpo stanco anche i sospetti, le paure, lontano dal clamore che circonda ogni morte. D’improvviso una piacevole sensazione di calore m’avvolge. Mi sento come quando mi addormentavo tra le tue braccia davanti al camino acceso, e presso il tuo cuore respiravo il fuoco delle tue angosce che avvelenavano il latte con cui mi nutrivi, gli stessi segreti che non esprimevi per mancanza di parole appropriate. Sei sempre stata di pochi sorrisi, di poche carezze, poco di tutto, chiusa nella tua poca dimestichezza agli affetti. E’ questo che ti ha resa incapace d’amarci come si conviene? E’ l’ignoranza che rende taciturni gli esseri umani o sono i grandi amori ad ignorare le parole? Quali espressioni useresti se mi vedessi dentro questo buco, inzuppato di urina e di sangue, negli occhi il terrore per il cuore che mi scoppia? Mi rimprovereresti perché ho sporcato i calzoni della festa e la felpa è strappata sul gomito? Senza fiatare accoglierei la tua mano aperta in uno schiaffo e ti ringrazierei per la vita che mi daresti un’altra volta. Ci sono cose ben più dolorose delle percosse che fiaccano lo spirito di un bambino. Certe durezze mi affliggono ancora, ma preferirei sentire nuovamente il bruciore delle mani che si abbattevano su di me come un randello, pur di sentirmi vivo. Invece, sarò morto prima che qualcuno ancora mi tocchi, falciato prima che venga l’età più bella. Quante volte mi sono nascosto per sottrarmi alla furia di momenti di follia. Gli adulti sfogano la rabbia di un carattere irascibile, le delusioni, il difficile della vita, sui più deboli con la scusa di educare, ma non s’impara nulla dalle brutalità. Spesso l’ira dei grandi porta all’irreparabile. Certe verità non sono fatte per essere raccontate, non trovano comprensione, né parole che possano contenerle, ma ancor più per ciò che ci unisce nonostante i dissapori, lo stesso sangue che abbiamo nelle vene, anche se il sangue non basta a giustificare i peccati. Nelle nostre vite c’è troppo da nascondere e se uscirò da questo buco, mentirò per evitare che la vergogna ricada su quella che ieri chiamavo famiglia. La stessa in cui un giorno ho messo le radici con la fiducia di un cieco che crede di vedere. Forse scriverò un libro sotto falso nome per non portarmi addosso il disonore di troppi segreti, ergermi finalmente dalle macerie del passato.
Ho caldo, comincio a sudare. Mio fratello mi toglie il giubbotto e mi trascina per le braccia attraverso un’apertura che sfocia in un’altra stanza, nella vana speranza di trovare l’uscita. Ma non lo aiuto, sono un peso morto che non può sostenere. Abbandona la presa, si inginocchia accanto a me muto. Sento le lacrime bruciarmi sulle guance perché non posso fare niente, mentre darei la vita se servisse a salvare la sua. Apro la bocca per confessargli il mio amore, ma resto muto anch’io, senza più energie, il petto sobbalza ad ogni respiro e ricomincio a tremare.
Alzo gli occhi verso lo spiraglio aperto sul mondo di là fuori, e nel nostro buio sembra il raggio di luce che emana l’occhio di Dio disegnato sul libro di religione. Forse Egli stesso tra poco scenderà per portarci in salvo, ma io voglio te mamma. Sussurro il tuo nome e piango in silenzio per non aggravare la paura, tenerla a bada per non impazzire. Vorrei volare più in alto delle aquile per scrutare da lontano quale luogo ti possiede in queste ore, riconoscere nel tuo volto i miei tratti, alterati dalla stessa paura e rifugiarmi in te per consolarci. Ma non ho ali, né braccia capaci di contenere la tua assenza. Forse un giorno tornerò nei tuoi sogni, ti parlerò del mio tormento, dei pensieri annacquati e confusi, dei mostri che s’aggirano in questa che diventerà la nostra tomba senza fiori. Forse un giorno poserai una carezza sul mio volto freddo e ti sembrerà incredibile che quello sotto la tua mano sono proprio io. Ti parrò cresciuto d’improvviso e stenterai a riconoscermi sotto la coltre di polvere che il tempo ha posato sul mio corpo. Ma i vestiti sono del bambino che voleva diventare un uomo e sognare senza incubi giorni diversi da quelli vissuti.
Ora la tua immagine si sfoca lentamente, fino a diventare un’ombra sulle pareti, e si confonde a quella di mio fratello che grida parole insensate. Gli dico di prendermi la mano che sto morendo, che lui deve vivere. Basta una vita sola per testimoniare l’incuria dei grandi. Chissà se domani qualcuno proverà ad interpretare le paure di due bambini lasciati soli a districarsi col mistero della morte, il rammarico di non poterti vedere un’ultima volta e posare sul tuo viso una carezza, quel volto scuro spesso vilipeso da mani vigliacche.
Ti ricordo il giorno della mia Prima Comunione. Eri vestita bene e sembravi felice, eppure intorno a noi c’era aria di bufera che si univa a quella che mi alitava dentro. Avevo mille paure. Paura di sprofondare sotto il peso dei nostri peccati. Che l’ostia benedetta cadesse a terra prima che aprissi la bocca, o che il Corpo di Cristo si dilatasse a tal punto da soffocarmi. Che orrore di pensieri quel giorno! Ma quando il prete la posò sulla lingua, si disfece sul palato e la ingoiai senza sforzi, mentre nel cuore mi cantava un’emozione nuova. Giunsi le mani sul volto per nascondere le lacrime e godermi quel momento di pienezza. Chiesi perdono a Dio per tutti e implorai la Sua misericordia. Quando infine mi alzai, incrociai lo sguardo della statua del Cristo e mi parve volesse dirmi che non ero colpevole dell’infelicità dei miei affetti, che l’inferno in cui mi muovevo presto sarebbe finito.
Vedi quante cose non sai di me? Anch’io parlo poco, come i vecchi di un’altra generazione che sputavano sulla terra la saliva accumulata sul palato dal silenzio, o come gli ignoranti i cui segreti marciscono nell’animo per l’idioma che gli fa difetto. Ora che vorrei dire tutto in una volta, non posso più. Ti racconterei di me, della disperazione in questa solitudine senza eguali. Ti parlerei di Zeus che la madre rapì dalle ire di Crono e lo portò sull’isola di Creta. Stendimi la mano mamma e portami nella tua isola deserta, strappami alla terra che vuole inghiottirmi. Ma tu, chiusa nella tua inconsapevolezza, sei diventata sorda al richiamo del sangue. Come fa una madre a restare calma col rumore della nostra assenza? A non andare raminga a cercare il luogo che ci nasconde? Si direbbe che sei arresa al fatto ineluttabile, da cui preferisci stare lontana piuttosto che ammetterlo, come volessi difenderti anche tu dall’incuria che ci ha condannati. La tua assenza è rinuncia o l’espressione di un rancore? Come se i figli fossero responsabili di tutte le ignominie, delle speranze deluse, parafulmini contro l’ira di un mondo spezzato. O ha ragioni più profonde, la coscienza di una sconfitta? Ci sono assenze che fanno più rumore di un martello su un ferro arroventato, e si fa fatica a non sentirle, pur se dettate dal ripudio. Le nostre grida inascoltate sono la prova della colpevolezza di tutti, e riecheggeranno nel cielo di molte stagioni benché il tempo proverà a cancellarle.
Il petto non s’alza più a cercare l’aria, il mio corpo è freddo come il marmo, gli occhi liquidi di pianto non si aprono, sulle labbra il gelo del silenzio. Vorrei fare un gesto, un passo ancora, ma resto schiacciato sul cemento come una foglia senza più linfa, mentre una forza invisibile mi risucchia dentro un luogo che non so decifrare. Solo la mente resiste a subissarmi di pensieri. L’ultimo è per te mamma ora che sto morendo. Non pensavo che la vita ci castigasse a questa separazione, ignoravo di avere così poco tempo da dedicarti, ma tornerò a guardare muto nel fondo dei tuoi dilemmi quando vorrai mitigare un rimorso. La morte la immaginavo un macigno, ma è più pesante per chi resta, una valigia di colpe difficile da trascinare per il tragitto che rimane da percorrere. E i “se”, i “forse” non serviranno ad attutire il rimpianto, non saranno di alcuna consolazione nel cuore di chi non ha voluto credere che insieme a noi precipitava un mondo. Domani gli assenti verranno in corteo a depositare fiori, gli stessi che hanno ignorato per troppo tempo. E si mischieranno i padri e le madri, gli ipocriti e gli afflitti, come venissero ad assistere a uno spettacolo. Gli uni per avere un momento di celebrità, gli altri per fiutare l’odore dei cadaveri, mentre nella casa dalle cento stanze rimarrà sepolto per sempre il segreto dell’ultimo volo, insieme alle nostre grida che solo la morte ha udito.
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