la meta è nella sorgente
l’albero si trova nel seme
nell’alfa si trova l’omega”
(Osho)
La Morte è il fenomeno più sottile e straordinario che esista, nulla è più misterioso: quando qualcuno muore si assiste a un evento sacro.
In Oriente la Morte è più rispettata della vita, le si dà il benvenuto come ad un ospite divino: se bussa alla porta è il segno che l’Universo è pronto a riaccoglierti.
In Occidente, al contrario, viene trattata come una realtà a sé stante. La nostra società si sforza di cacciare il pensiero della Morte: rifiutandolo protegge e sviluppa il nostro bisogno di vivere, vivere ancora e meglio.
Una volta la Morte era al centro della vita, così come il cimitero era al centro del villaggio. Oggi i cimiteri e i defunti sono stati allontanati dalla vita quotidiana. Spesso l’uomo muore da solo o davanti al personale ospedaliero. Si è passati dalla Morte pubblica al decesso privato, dalla Morte che riguarda tutto il villaggio a quella che riguarda solo i parenti stretti; del defunto si occupano in forma riservata solo il coniuge o i genitori, separandolo dal mondo.
Nell’Africa rurale la Morte riguarda tutta la famiglia, ma anche il villaggio partecipa attivamente ai funerali con canti, danze, costruzione del feretro, riti del lutto, come avveniva ancora pochi decenni or sono nel nostro Meridione.
In Indonesia mi sono trovata ad assistere ad una cerimonia funebre. Tutti rendevano omaggio al defunto con collane di fiori e cesti di frutta; i congiunti salivano sull’alto baldacchino di legno, sul quale egli era adagiato tutto vestito di bianco, per accarezzarlo e sussurrargli nell’orecchio. Una piccola banda di musicanti suonava e tutti cantavano. Al tramonto i parenti hanno bruciato la salma e tutti in processione, cantando, sono andati a gettarne le ceneri in mare.Ad un’altra di queste Morti serene e “accompagnate” ho assistito in Nepal, dove sulla riva del Fiume sacro, ho visto, tra le lacrime di commozione, un uomo disteso con l’acqua che gli lambiva i piedi, morire serenamente, mentre il medico gli teneva la mano e tutti i parenti e gli amici lo attorniavano affettuosi.
In Occidente la desacralizzazione della Morte rischia di portare con sé una de socializzazione, il cui processo negli ultimi decenni si è notevolmente accelerato, al punto che morire diventa un atto totalmente individuale. Quasi ovunque il rifiuto del lutto ha cause sia psicologiche sia sociali. Negli U.S.A. dove le convenienze considerano disdicevole la deplorazione della Morte e dei riti che l’accompagnano, colui che perde una persona cara, dovendo reprimere la possibilità di una manifestazione liberatrice di sofferenza, viene sottoposto ad una tensione a volte insostenibile ed è questa una delle cause del moltiplicarsi delle depressioni nervose. Sono, a proposito, emblematiche le parole di Simone de Beauvoir, scrittrice e psicologa francese di fama internazionale: “E’ inutile pretendere d’integrare la morte alla vita e di comportarsi in modo razionale di fronte ad una cosa che razionale non è: ognuno si tragga d’impiccio come può dalla confusione dei propri sentimenti”.
Così la Morte, respinta, diventa un nemico di cui avere paura, a volte diventa un’ossessione. Ossessione di morire vuol dire essersi identificati con il proprio corpo, corpo che è solo un meccanismo, di durata limitata come tutti i meccanismi, ed essersi lasciati sfuggire l’intero significato della vita. Vita che è un processo di cui la Morte è il culmine, la realizzazione. Se si praticasse una disciplina del vivere bene e del bene morire, si vivrebbe con più consapevolezza, cercando di penetrare la vita e di conoscere meglio la Morte. L’Uomo comprenderebbe come nell’esistenza vita-morte sono un’unica entità, così come aspirazione-inspirazione sono un unicum nel nostro respiro.
“La Morte è il fiore dell’albero che è la Vita”. Con la Morte vengono meno il corpo, i sentimenti, i pensieri, le amicizie, il mondo esterno si dissolve completamente, ma noi restiamo, scompare il nostro “io”, ma resta la nostra “essenza”, la nostra energia spirituale. Morire consapevoli vuol dire rinascere consapevoli, poiché il cammino dell’evoluzione spirituale riprende dallo stesso punto in cui morendo l’abbiamo interrotto.
Chi approfondisce cos’è la Morte incontra la vita eterna, chi fugge dalla Morte non vive la vita. “Si vis vitam para mortem”
Osho, il grande maestro mistico, per far comprendere la “falsità” della Morte come fine di tutto, usava portare un esempio; “Una goccia di mare, quando evapora, viene creduta morta dalle altre gocce, essa invece continua ad esistere nelle nuvole ed è destinata a ricadere sulla terra, ma le altre gocce non possono conoscere il percorso che sta completando quella goccia, finché non lo affronteranno anche loro.”
Vita-Morte-Rinascita: il Cristianesimo ha unificato le prospettive. Dopo la morte fisica arriverà il ricongiungimento con il Divino, da cui siamo solo temporaneamente separati e vivremo per l’eternità.
Nell’Africa nera l’uomo vive e “rivive”, al ritmo incessante della natura, giorni, mesi, stagioni, anni, nascita, matrimonio, procreazione, morte, ingresso nella collettività dei defunti, eventuale reincarnazione. I “cicli della stagione e della luna” rappresentano per lui la prova della Morte e del nuovo Inizio, a cui nessun uomo si può sottrarre.
Gli Indiani del Nord America interpretano il messaggio della luna, crescente e calante, come un fenomeno a cui è soggetto tutto l’Universo; morire e rivivere: “Come la luna muore e ritorna, così noi risusciteremo dopo la morte”.
Appare evidente il divario esistente tra i due sistemi culturali. Per le società ad accumulo di beni, che cercano rendimento e profitto, il mondo è oggettivato, utilizzato e forse a lungo andare condannato a morte. Per l’uomo arcaico il mondo è in qualche modo un suo alter ego, un nucleo di forze viventi che bisogna rispettare ad ogni costo, con il quale vengono stabiliti dei rapporti quotidiani significativi e con il quale si vive in stretta simbiosi: il mondo è fonte di vita ed è vita esso stesso.
Nell’800, quando l’Europa con l’avvento di Napoleone, cade nell’angoscia, il nostro poeta Ugo Foscolo non inasprisce la sua anima, come era accaduto al Leopardi nell’ultima parte della vita, e non si rifugia come il Manzoni nella Chiesa. Egli cerca di trasfondere le certezze e le oscurità, le passioni e il destino degli uomini, nei suoi scritti. Scherza sulla etimologia del suo nome: fos-cholé, luce e bile, luce e furore passionale. La Morte è quasi sempre presente nei suoi versi ed è accompagnata a volte da lirica malinconia, ma più spesso da luce e passione, come appunto indica il suo nome. Nel bellissimo sonetto “Alla sera”, dedicato alla sua nativa Zacinto, terra dove egli non potrà più essere sepolto perché divenuta territorio austriaco, c’è una serena attesa della Morte. “Forse perché della fatal quiete tu sei l’immago a me si cara vieni, o sera” e ancora “vagar mi fai co’ miei pensieri su l’orme che vanno al nulla eterno”. Anche nella malinconia struggente, che accompagna il pensiero del crepuscolo a quello della Morte, il poeta è sereno e chiama “cara” la sera, come il Leopardi chiamerà “caro” l’amato solitario colle “dell’ Infinito”, e l’immagine delle “inquiete tenebre” è mitigata da “zefiri sereni”. Versi che negano un’idea lugubre della Morte.
Seneca scrive che, il prepararsi all’ineluttabilità della Morte, non significa rinunciare a vivere anzi egli propone una vita ideale dedicata al distacco dalle passioni e al perfezionamento interiore. Tuttavia nelle “Epistolae” raccomanda a Lucilio, suo discepolo, il suicidio nei casi in cui il saggio, per l’ostilità dei tempi, non potrà più praticare la virtù.
C’è però chi non sa sottrarsi al desiderio di dare fine volontariamente alla propria vita. Un individuo compie un atto di aggressione verso se stesso, procurandosi la Morte, spinto da cause le più diverse: depressione, solitudine, malattia, lutto, protesta, ecc.
Risulta dai dati statistici che, a maggior benessere e civiltà, corrispondono un numero superiore di morti per suicidio. In Africa, se non si considerano i suicidi sacrificali, il tasso di morte per suicidio è bassissimo. Questo perché non esistono sindromi di depressione o malinconia, certamente per il legame ed inserimento del singolo in una rete di gruppi famiglia e clan, per la forte solidarietà familiare e del villaggio, ed infine per l’assenza di un super-io interiorizzato. Tutti motivi che fanno da sbarramento alle depressioni e al “fascino” del suicidio. Viceversa nella nostra società l’individuo è spesso solo in mezzo alla gente, gente indifferente ai suoi problemi e malinconie, ed inoltre deve fare i conti con il suo “io” e la sua coscienza sottoposta a continue prove di scelta, al contrario di quanto avviene nei clan dove si agisce per regole certe e stabilite.
Tra le Morti per suicidio si possono ipotizzare anche cause di “suicidio passivo”. La Morte di Socrate e quella di Cristo, pur essendo molto diverse, ne rappresentano due esempi. Essi vanno consapevolmente incontro alla propria Morte. “Sacrifichiamo un gallo ad Esculapio” dice l’orgoglioso Socrate che vuole morire e, mentre il veleno lo avvicina alla fine, dice parole di serenità e di conforto ai suoi discepoli. Diversamente Cristo, pur non volendo essere complice dei suoi persecutori, non fa nulla per sottrarsi ad un destino imminente, limitandosi ad affidarsi alla misericordia di Dio: “Padre mio, se possibile, allontana da me questo calice”.
Il Grande Architetto, artigiano supremo, quando ci ha creati, sapeva cosa creava, quindi ognuno di noi incarna un certo concetto che è il Pensiero Divino. La nostra anima o essenza parte ab initio da Lui ed incarnandosi entra nel ciclo delle proprie esistenze; ogni volta che torna in terra deve riprendere il suo cammino spirituale, là dove lo ha interrotto. Nessuno può insegnarle la “verità”, ognuno deve trovarla in se stesso. E’ la ricerca della Luce, che non è luce del sole, ma della conoscenza ricercata all’interno della propria coscienza. E’ la ricerca della verità metafisica, la verità che riguarda la natura e il destino dell’Uomo e non la verità di qualche religione inculcata. E’ la conoscenza di Dio e dei suoi misteri divini. E’ il lavoro che ogni Libero Massone deve dedicare alla sua pietra grezza per renderla così levigata da lasciar penetrare la luce.
Allora nelle nostre Agapi potremo con gioia unire ai brindisi dedicati alla Libertà, all’Uguaglianza e alla Fraternità, anche l’esclamazione latina originaria:
Vivat, vivat, vivat, semper vivat !(tratto dai quaderni di Serenamente di A.Vacca)
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